Bossani non era per nulla stupido, quindi aveva sempre diffidato di me, annusando la mia reticenza. Mi tollerava, perché in fondo non gli avevo mai creato problemi, ma non mi considerava davvero uno dei suoi, anche se ormai lavoravo per lui da qualche anno. Per lui restavo qualcuno che poteva sostituire senza remore, soprattutto se ne avesse avuto bisogno per fare posto a uno dei suoi fedelissimi.
Ma la mia iniziativa di mandare via trecento persone l’aveva ammorbidito. Lui l’aveva letta come un’abile mossa per annettermi una divisione e avere più potere, non aveva proprio considerato che la mia vera motivazione fosse quella di salvare le mie persone. A dire il vero anche io mi chiedevo quale fosse stata, la mia vera motivazione.
Alla fine, comunque, le persone le avevamo dovute mandare via, io e Simone chiusi in una stanza. Arrivavano una ad una, dieci al giorno, mezz’ora per ognuno, una lunga processione che era durata due mesi e che ci aveva tolto ogni energia. Non mi ero mai sentito così male, e la decisone di essere io personalmente a dare la notizia, a parlare con ognuno, era la pena del contrappasso che mi ero autoinflitto, mascherata dal principio eroico di “metterci la faccia”.
Nell’illusione che ai ragazzi e alle ragazze che venivano nell’ufficio facesse una differenza sentirselo dire da me o da un burocrate qualunque. O forse si, forse per loro era importante avere qualcuno di visibile con cui prendersela, qualcuno che rappresentasse l’azienda e che si potessero ricordare di odiare, per sempre. Ecco, ero diventato l’azienda.
In quel periodo quindi, dopo avere mandato via trecento persone che non avevano fatto nulla di male, ero molto poco incline a perdonare l’inefficienza, o la semplice inettitudine.
10 – Pruzzetti
Sopportare gli incompetenti stava diventando sempre più difficile. Era appena arrivata una mail da Camillo Pruzzetti, un ragazzo appena assunto e che Orietta aveva decretato essere il mio responsabile personale della comunicazione. Slavato, poco significativo, aveva lavorato per noi come stagista nell’agenzia che ci segue e per tre anni nessuno l’aveva mai notato, poi Orietta aveva deciso che avevo bisogno di qualcuno dedicato a me, e come mi succedeva sempre più spesso non ero riuscito a dirle di no.
Ero convinto che l’avesse assunto in cambio di qualche favore particolare chiesto all’agenzia; negli ultimi due mesi il nostro marketing era riuscito a farci comparire tre volte sulle pagine economiche del “Corriere della Sera” e di “la Repubblica”, e due volte su tre Bossani veniva ritratto come un moderno principe illuminato. Questa benevolenza non capita mai per caso, soprattutto considerando che di illuminato Bossani non aveva nulla. O noi o l’agenzia avevamo promesso qualcosa a qualcuno, e il mio sospetto era che l’avere assunto Pruzzetti in pianta stabile dopo anni di precariato fosse stato parte della trattativa.
La mail di Pruzzetti era lunga, troppo lunga, e questo costituiva già un enorme difetto. Mi spiegava prolissamente come una mia intervista fatta per un giornale tecnico, uno di quelli che comunque vengono letti solo da elfi e puffi e quindi non importano a nessuno al di fuori dei boschi, non fosse riuscita alla perfezione. Sembrava che la giornalista avesse travisato le mie parole, che lui si fosse prodigato, senza riuscirci, nel tentativo di correggere il testo in meglio, che ci fosse stata addirittura quasi una lite tra lui e lei e che comunque, alla fine, non fossimo emersi come gli innovatori che sempre cerchiamo di far credere di essere.
Era un lungo preambolo con tutta una infinita serie di giustificazioni e di spiegazioni, non richieste perché in realtà a nessuno importava nulla di quell’intervista. Pruzzetti riportava in dettaglio gli argomenti che aveva usato per convincere la giornalista, le risposte negative ricevute, le sue insistenze. Un pedante, e un pedante fallimentare.
In calce alla mail, finalmente, l’articolo. Visto che ero arrivato fino a lì, tanto valeva finire di leggere. Decine di righe piene di locuzioni generiche, frasi fatte, gergo italo-inglese, ovvietà. Tutto l’armamentario concettuale che il marketing del nostro settore aveva affastellato in trent’anni cercando di dare nomi nuovi a concetti vecchi. Innovazione fluida, lavoro agile, debito tecnologico… il paradiso della sinestesia.
Poi, a tre righe dalla fine, a seguire un mio commento in cui raccontavo tutto ciò che facevamo di meraviglioso per “il benessere delle nostre persone che sono il nostro asset più importante…” la giornalista lasciava cadere con disinvoltura che la nostra azienda era stata condannata da un giudice del lavoro per tre casi di mobbing in cui aveva dovuto reintegrare i dipendenti e pagare risarcimenti milionari.
Ero rimasto a bocca aperta.
Non era vero, ne ero certo e immaginavo anche perché la giornalista si fosse confusa e l’avesse scritto. Qualche giorno prima era uscita una notizia su un blog di tecnologia americano che raccontava di una sentenza per mobbing in Svezia in cui un’azienda locale era stata effettivamente condannata. Il nome dell’azienda non diceva nulla a nessuno al di fuori dalla Svezia e così nell’articolo, per fare capire meglio al loro pubblico di che industria si stava parlando, l’avevano definita come una nostra concorrente. Sarebbe stato meglio che il nostro nome non fosse comparso ma il testo era chiaro e nessuna persona ragionevole ci avrebbe associato al mobbing. Ma la giornalista non era ragionevole, e più o meno consciamente aveva connesso le tre cose, il mobbing, il nostro nome sull’articolo che parlava di mobbing, le mie parole che trasudavano amore per i nostri dipendenti. E aveva pensato di sistemarci per le feste.
Ma la veridicità non era nemmeno il problema principale. Quella frase, anche se compariva su un giornale con una diffusione infinitesimale, sarebbe stata raccolta dai software che creano le rassegne stampa. La parola “mobbing” la avrebbe catapultata per rilevanza in cima a quelle stesse rassegne e sarebbe stata letta da decine di migliaia di amministratori delegati che per abitudine e noia le leggono, normalmente fermandosi alla prima pagina. E a quel punto il danno sarebbe stato fatto. Anche se la notizia era completamente falsa, anche se la rivista avesse ammesso immediatamente di avere commesso un errore, anche se un giudice avesse condannato la stolta a pagarci un indennizzo. Saremmo rimasti per qualche anno, nella mente di tutti, quelli che erano stati condannati per mobbing. Anche se non era “vero” l’immagine di Bossani sarebbe rimasta macchiata, per non parlare della mia, gettata nell’immondizia per l’associazione con l’articolo.
E quella frase, quell’incompetente di Pruzzetti non l’aveva nemmeno vista. Si era perso a dissezionare dettagli insignificanti e aveva completamente ignorato la singola frase che avrebbe posto fine alla sua carriera e a quella della giornalista.
Ho chiamato Orietta, che ha impiegato due secondi a capire cosa fosse successo. Si è mossa veloce, ha telefonato all’editore, non ha urlato ma ha detto le parole giuste: danno, querela, chiusura, velocità.
L’editore l’ha richiamata dopo cinque minuti. Il pezzo, che era già sul sito internet, era stato rimosso. La rivista sarebbe uscita nelle edicole con un giorno di ritardo e senza quella frase.
Orietta non l’ha ringraziato, non ancora, non sapevamo ancora se l’articolo sarebbe comparso nelle rassegne stampa o no, nessuno sa esattamente il momento esatto in cui i programmi software scandiscono internet per trovare i materiali.
Le rassegne stampa, che una volta arrivavano negli uffici via fax in mattinata, ora arrivano per posta elettronica intorno alla mezzanotte, appena dopo la chiusura delle redazioni dei quotidiani.
Fino ad allora eravamo impotenti, potevamo solo aspettare. Fare pubblicare adesso una smentita sarebbe servito solo ad attrarre l’attenzione.
Orietta ha convocato Pruzzetti nella stanza. Ora invece stava urlando. Urlava così forte che Pruzzetti si è messo a piangere. Ma non le bastava, aveva completamente perso il controllo, lo malediva per le generazioni a venire, aveva gli occhi affessurati, gli zigomi incandescenti e i capelli di Medea. Pruzzetti ne uscì in cenere, ero convinto che non lo avremmo mai più rivisto. Lentamente, Orietta ritornava normale.
Decidemmo di non avvisare Bossani o il suo ufficio stampa, non sarebbe cambiato nulla e probabilmente ci avrebbero cacciato anche solo per avergli fatto correre il rischio di essere sputtanati.
Erano le sei del pomeriggio e restare ad aspettare in ufficio mi sembrava insopportabile, così le proposi di fare un giro.
Siamo usciti dall’ufficio e abbiamo iniziato a camminare verso nord, attraversando i parcheggi di macchine e autobus intorno alla stazione; senza che io glielo avessi chiesto lei mi ha iniziato a spiegare, partendo da lontano come fosse una fiaba, perché Pruzzetti era entrato nella nostra azienda.
C’era una volta un giornalista di mezza età che aveva sempre frequentato la casa dei genitori di Orietta, anche loro giornalisti, qualche anno più grandi di lui. Uno di quegli amici di famiglia che fanno i regali di Natale ai bambini e che quando li vedi li chiami zii, che non ti sembra che abbiano una famiglia propria e quindi chiamarli zii potrebbe aiutarli a sopportarlo. Poi questo giornalista era diventato famoso, e aveva cominciato a vedersi meno spesso a casa loro. Un giorno Orietta, ormai quasi laureata, in un cinema del centro era entrata nei bagni e aveva visto sua madre contro il muro, il giornalista famoso schiacciato dentro di lei, come due ragazzini senza un posto dove farlo. Madre e figlia si erano guardate ma nessuno aveva detto nulla. Da quel giorno il giornalista famoso non si era mai più visto in casa ma aveva cominciato ad aiutare Orietta, che nel frattempo aveva iniziato a lavorare occupandosi di pubbliche relazioni e uffici stampa. Prima consigli spiccioli, poi lunghe colazioni in cui le parlava con tono paternalistico. Mai un’avance, per fortuna, ma sempre il disagio di ricordare la scena nel cinema e la sensazione, la certezza di essere legata a lui. Poi, quando la carriera di Orietta cominciava a prendere forma e ad estendersi al marketing, aiuti veri, contatti con altri famosi giornalisti che lei usava per ottenere interviste ai suoi capi che nessuno dei suoi colleghi avrebbe potuto ottenere, inviti a cena con intellettuali irraggiungibili e con i più prestigiosi pubblicitari italiani.
Era diventata per tutti la figlioccia di chi nell’infanzia aveva chiamato zio e che un giorno, forse inevitabilmente, le ha chiesto di fare da fata turchina a un suo figliastro vero, un figlio naturale avuto da una donna che aveva dimenticato ma che di cognome faceva Pruzzetti e che non era in grado di cavarsela da solo. Orietta non aveva battuto ciglio, aveva obbligato l’agenzia che lavorava per lei ad assumerlo, e poi quando l’agenzia le aveva detto che non riusciva più a rimediare a tutte le stronzate che faceva l’aveva assunto direttamente da noi, assegnandolo a me perché sapeva che l’avrei tenuto d’occhio.
Mentre pensavo con terrore che Pruzzetti nonostante la sfuriata di prima, avrei dovuto tenermelo per sempre, e con soddisfazione che se lo aveva appioppato a me era perché mi stimava, le ho chiesto cosa pensasse sua madre di tutto questo. Mi ha sorriso, mi ha detto che si vedeva che ero bravo ad ascoltare e che con sua madre non aveva mai più parlato da quel giorno al cinema, ma che del resto non si erano mai parlate molto nemmeno prima.
Orietta faceva sembrare tutto leggero, così le ho sfiorato la mano mentre scendevamo da un marciapiede per aggirare un’auto di traverso e lei mi ha preso le dita.
Eravamo arrivati alla fine della massicciata della stazione, non c’era nessuno in giro, ho preso a destra verso via Venini, c’era troppo silenzio e avevo bisogno di un sottofondo per raccontarle di me. L’ho trovato in una trattoria pugliese, ci siamo entrati che avevano appena aperto e ce ne siamo andati che era quasi mezzanotte, immaginandoci di sapere tutto l’uno dell’altra. Mentre camminavamo verso l’ufficio ci siamo ricordati del mobbing, delle rassegne stampa, di come eravamo arrivati a quel punto. L’ansia si era ripresa il suo spazio, ma le nostre mani erano rimaste intrecciate.
Arrivati sotto l’ufficio i nostri telefoni ci hanno mostrato le rassegne. Nulla di nulla. Eravamo salvi.
L’ho baciata sulle labbra e le ho sorriso. Mi ha baciato sulle labbra, è camminata via.
Questa davvero mi è difficile ricostruirla...