Scoprire le labbra di Orietta era stato un piacere inaspettato, ma non aveva portato quello che speravo. Passavamo insieme parecchio tempo, quasi sempre in ufficio, a volte uscivamo a mangiare a pranzo, ma era un tempo sospeso, il bacio era rimasto un bacio e non si era ripetuto. Io avrei voluto una relazione, lei sembrava volere un amico, o forse non voleva proprio nulla.
E mentre i giorni passavano, mi rendevo conto che nonostante la nostra sera di chiacchiere e di confessioni eravamo rimasti solo due colleghi, io non avevo nemmeno cominciato a spiegarle la mia ambivalenza e le mie dissonanze. Non capivo cosa pensasse di me, tranne che sapevo come farla sorridere con il mio sarcasmo aziendale. E visto che io ero pur sempre il suo capo mi guardavo bene dal prendere qualunque iniziativa. Era una relazione di parole, eravamo tutti e due bravi e ci divertivamo ad usarle, inchiodavamo i colleghi con soprannomi, sbeffeggiavamo le routine che ci sembravano più tristi o più inutili.
Poi arrivò un’emergenza. E mi fece scoprire che quando ci sono le crisi vere, quelle che segnano tutto il paese, o tutto il mondo, allora il mio ruolo, forse il ruolo di ognuno di noi, prende un senso diverso. I cazzeggi, le controversie quotidiane vengono cancellate, almeno per un po’, e si litiga per le cose importanti.
E nella crisi scoprivo anche che i ruoli che ci siamo assegnati, i cliché, possono riservarci sorprese, perché tutti cambiamo molto velocemente.
11 – Uncle Scrooge
Siamo tutti a casa. Io Bossani la Bergomi Mentano Simone. I ragazzi della reception. Quelli che ci aggiustano i computer. Le segretarie. Il leadership team. Siamo casa a Milano, a Sassari, a Napoli, a Roma, a Torino, a Padova. Non c’è più una persona in nessuno dei nostri uffici. Lavoriamo da casa.
Siamo a casa in dodicimila. A pensarci bene siamo a casa in cinquanta milioni, quasi tutti gli italiani sono chiusi in casa in attesa che passi l’epidemia, ma a me oggi, come in ogni giorno feriale, interessano i miei dodicimila.
La nostra nuova routine comincia alle otto del mattino. Davanti alla microscopica telecamera incastonata proprio a metà del bordo superiore dei nostri computer. Che non ci fa sconti. Ci riprende in grandangolo, ci imbruttisce rispetto alle piccole foto patinate che ci identificavano prima, prima che accendere la telecamera diventasse una questione di etichetta aziendale, e che ci mostravano più giovani, più sodi, più composti.
Alle otto – ogni mattina – comitato di crisi. I responsabili delle divisioni, e i loro capi del personale.
Bossani lo presiede, e ha la cravatta. I primi giorni l’avevamo quasi tutti, e le poche donne erano nel tailleur d’ordinanza, alle otto del mattino. Ora non si contano le tute, le t-shirt, i capelli sporchi e le barbe incerte. Bossani sembra non farci caso, ma non cede.
All’inizio, nei primi giorni della reclusione, le conversazioni erano vaghe e disordinate, sembravamo tutti epidemiologi e discettavamo di sintomi, di curve di crescita e di piani di evacuazione. Ora siamo più concentrati e le discussioni vertono tutte sul come andare avanti, e soprattutto su ciò che davvero sembra contare: chi paga.
Il comitato di crisi segue ormai uno schema fisso. Bossani ci chiede come stiamo e ci raccomanda di prenderci cura di noi e dei nostri team; in quei cinque minuti, sempre uguali, molti finiscono la colazione. Guardando bene le immagini si possono vedere masticazioni accennate e a volte si può intuire, fuori dall’inquadratura, il gesto dell’inzuppare il biscotto nel latte e poi una mano furtiva che porta qualcosa alla bocca.
Poi io e Mentano iniziamo con il bollettino di crisi. Quanti clienti ci hanno detto che il progetto è interrotto, con quanto preavviso, in che termini e con quanta brutalità; quante delle nostre persone da ieri si ritrovano senza un progetto su cui lavorare. Il numero è ogni giorno più alto, ormai sono più del trenta per cento.
“Aldo”, mi interrompe Bossani mentre sto raccontando di un cliente che ci ha dato zero giorni di preavviso e ci ha persino invitato esplicitamente a fargli causa, visto che tanto probabilmente la sua azienda non resisterà abbastanza a lungo da vederne gli esiti, “tu cosa faresti?”
Non è una domanda per le otto del mattino, non è una domanda a cui penso di poter dare una risposta sincera. Non è proprio una domanda per me. Ma qualcosa devo dire.
“O la paghiamo noi, o la pagano le nostre persone, o cerchiamo di fare a metà. Ma non credo che la decisione spetti a noi, cosa dice Hoist?”. Hoist, il temuto capo europeo, che non ha ancora fatto sentire la sua voce in questi giorni di crisi.
“Hoist ci lascia fare quello che vogliamo”, risponde Bossani, “credo che sia nel panico e non riesce a decidere nulla, quindi ci ha detto di fare come crediamo, anche se poi vorrà approvare tutto.”
“Allora paghiamola noi. Abbiamo fatto utili per vent’anni di fila, non abbiamo una lira di debito e così tanti soldi in cassa che potremmo pagare gli stipendi per due anni anche senza avere un cliente.”
È Simone che ha parlato, lui che di solito in queste riunioni con i grandi capi sta sempre zitto. Il mio capo del personale, l’unico con cui ogni tanto parlo del mio sentimento bipolare per il nostro lavoro. Le sue parole sono così dirette e così poco rispettose. Troppo dirette. C’è una liturgia specifica, e solo Bossani può dettare la linea con sicurezza, tutti gli altri devono proteggere le loro opinioni dal rischio di non essere quelle giuste usando circonlocuzioni complesse, periodi ipotetici e potenti dubitativi.
Simone, invece dei soliti congiuntivi e condizionali conditi di “se”, “considerato che”, “assumendo”, “nell’ipotesi”, “dipende”, “ma anche”, aveva usato l’indicativo.
Solo silenzio, per almeno venti secondi. Come se tutti si stessero interrogando sull’enormità di quello che è stato detto, e sulle conseguenze per il povero Simone. O forse tutti si aspettano la reazione di Bossani, ad alzo zero. Ma Bossani tace, e quindi le voci riprendono intensità, prima lentamente, poi accavallandosi alla ricerca di consenso. Volti cattivi, doppi menti, guance mal rasate.
“Dovremmo mettere tutti in cassa integrazione, paga lo stato…”
“No quelli che sono rimasti senza un cliente per cui lavorare devono consumare tutti i loro giorni di ferie a cominciare da…”
“Invece facciamo subito un contratto di solidarietà, si lavora tre giorni su cinque così ci si alterna sui clienti che sono rimasti…”
“Tutti quelli con i bambini piccoli possono prendere il congedo parentale facciamo lavorare solo gli altri…”
Andiamo avanti per quasi dieci minuti, si formano sciami di consenso effimero dietro all’una e all’altra posizione. C’è una finestra, sul computer, dove i partecipanti alla riunione possono scrivere commenti che tutti gli altri vedono, e dopo ogni intervento si affastellano scritte che dicono “giusto”, “d’accordo”, “più uno”. Nessuno aveva commentato le parole di Simone.
Non ci sono dissensi o critiche, ma è chiaro che il gruppo non ha una direzione se non quella di trovare il modo di far pagare la crisi a qualcun altro. Che la paghi lo stato o le nostre persone non sembra importare più di tanto, basta che non sia l’azienda a farlo; il nostro bonus da capi dipende dai suoi risultati, e quindi non fare pagare l’azienda vuole anche dire che non la pagheremo noi.
Io resto zitto, scambio qualche messaggio privato con Simone che ha capito l’impudenza della sua uscita, cerco di consolarlo ma sono preoccupato per lui, nessuno ha nemmeno preso in considerazione la sua proposta e io a questo punto non ho più il coraggio di sostenerlo.
Sono impotente ma sento anche che la mia fune interiore, quella che io cerco di ungere e oliare ogni giorno con i miei sforzi di essere obiettivo e rigoroso nel fare solo quello che credo sia giusto anche se il mio lavoro mi chiede di fare cose diverse, quella fune si sta per rompere.
Mi sento svuotato, e inutile, quando finalmente Bossani parla.
“Stiamo dicendo un sacco di cazzate. L’unico con un po’ di buonsenso è stato Simone. Se la facciamo pagare ai nostri ragazzi, non ce lo perdoneranno mai. Magari saremo gli unici a farlo, ma dobbiamo proteggerli, e pagare noi tutto il costo di questa epidemia. È un’occasione unica per essere diversi, le nostre persone ci adoreranno e non si parlerà che di noi. Usiamo le tasche gonfie della nostra azienda, e se questo vuol dire sgonfiare anche un poco le nostre, ce lo possiamo permettere. Quando finirà la crisi avremo raddoppiato la nostra quota di mercato. Lo vendo io a Hoist, non preoccupatevi.”
Simone mi manda una faccina con la bocca spalancata e un punto di domanda. Sul computer, nella finestra dei commenti, parte una gara ad applaudire. Io resto incredulo, Bossani mi ha spiazzato. Ha fatto la cosa giusta, anche per me. Domani ricominceremo ad essere stronzi, ma oggi anche io aggiungo il mio grazie tra i commenti, e per la prima volta sono sincero.
...e bravo Simone... ;-)