L’azienda era stata investita dalla morte di Mentano e Mastri come da un contagio radioattivo. In superficie tutto era come prima, ognuno era rimasto al suo posto. I danni erano invisibili.
L’indagine interna non ufficiale e quella della polizia concordavano su un omicidio-suicidio scatenato da gelosie aziendali e dal fatto che Mastri stesse attraversando un esaurimento nervoso. La Urbinari confermò che il marito le era sembrato strano ultimamente, e più di una fonte aziendale avvallò l’immagine di Mastri come di un uomo ossessionato dal fare carriera. E Mentano era un obbiettivo ragionevole.
Né io né la Urbinari parlammo della sua relazione con Mentano, senza metterci d’accordo. Anzi io evitai di proposito di incontrarla da solo, a parte le condoglianze di rito al funerale del marito. Quando Francesca tornò in ufficio, un mese dopo, sembrava normale, come se non fosse successo nulla.
Mentano venne santificato, l’azienda aiutò la vedova a organizzare un funerale sfarzoso, quasi di stato. Venne il sindaco, c’era gente fuori dalla chiesa. Tutti noi allineati.
Mastri invece ebbe un funerale dimesso, quasi clandestino, ma il suo nome divenne in qualche modo molto popolare, i giornali ne fecero il modello dei guai che una ambizione smodata può generare. Un giornalista opportunista pubblicò anche un instant book, pieno di invenzioni e di stronzate.
Sotto le apparenze ufficiali, l’altra vittima fu Bossani. Anche se non abbastanza da fargli perdere il posto, lo scandalo fu grande a sufficienza da affossare ogni sua speranza di diventare il capo europeo; nominarono un francese, se possibile ancora più pieno di sé di Ottavio. La peggiore alternativa possibile, e soprattutto una enorme delusione per i Bossani-boys, che non solo avevano perso Mentano, ma avevano anche perso le speranze di seguire l’ascesa del loro capo. Il quartier general europeo si riempì di francesi, si preparavano tempi difficili.
Anche io ebbi il mio contraccolpo, ma non era stato aziendale. Avere visto così da vicino quei due, letteralmente, uccidersi per una donna, mi aveva sbattuto in faccia la mia mancanza di coraggio con Orietta.
14 – Parla, fai qualcosa
(a Mina)
“Arriva Jean-Claude, occupatene tu”. Bossani era entrato in uno stato depressivo, ma le sue maniere non erano migliorate.
La prima visita in Italia di Jean-Claude Bourdeais, il nuovo capo europeo, arrivava in un momento complicato. I discepoli di Ottavio non riuscivano ad accettare quello che gli era accaduto e avevano perso ogni ritegno nell’usare l’azienda per sé stessi. Ognuno si sentiva padrone di un feudo e portava avanti i suoi affari come se gli fosse stata data la possibilità di scrivere leggi e battere moneta.
La scomparsa di Mentano, del suo argomentare mellifluo e capace di mettere tutti d’accordo, aveva avuto un impatto enorme e Bossani si era chiuso in sé stesso, sembrava non sapere più comandare.
Avermi delegato l’organizzazione della visita di Bourdeais era un pessimo segnale, per molte ragioni. In tempi normali l’avrebbe gestita Ottavio dall’inizio alla fine, in modo da far capire di avere il controllo totale e impressionare il capo con la qualità delle sue relazioni. In tempi normali io sarei stato l’ultimo ad essere coinvolto, i fuori cerchia come me erano relegati a ruoli marginali e mai, mai coinvolti nell’organizzazione.
Ma la stagione era cambiata, Bossani non si fidava più dei suoi e non aveva le energie per cambiare, ed io a quel punto rappresentavo la scelta più ovvia, non ero nuovo e non ero uno dei suoi.
Avevo chiesto a Orietta di venire nel mio ufficio. Era sorpresa perché da mesi ci vedevamo solo da lontano, ci sorprendevamo a guardarci nelle riunioni, facevamo i nostri commenti privati a margine delle videoconferenze di gruppo, ci lanciavamo battute ma evitavamo di essere soli. Era come se, dopo quel bacio più di un anno prima ci fossimo ritratti: io per poca forza d’animo, lei, mi dicevo, per mancanza di vero interesse. Quello che sapevo quasi per sicuro era che lei non avesse nessuno. Della mia solitudine invece ero proprio certo. Amici e colleghi gareggiavano per trovarmi una compagna, separate, vedove, semplicemente problematiche, belle e meno belle ma ogni volta dopo qualche uscita e magari una vacanza o un poco di sesso io lasciavo perdere.
Non reggevano il paragone con l’idea che mi ero fatto di lei, e per quanto mi sforzassi di volere chi mi voleva le lasciavo e tornavo ogni volta a volere quella che ero convinto di amare. Ma restava una volontà inespressa, e non trovavo mai il coraggio di andare a vedere cosa c’era davvero, in quell’angolo.
Le domandai di darmi una mano ad organizzare la visita con il suo piccolo esercito di marketing e comunicazione, e ottenni una puntuale reazione acida. “Vuoi davvero continuare a fare carriera? Ho sempre creduto che non ci fossi portato.”
“Non voglio fare nulla, Bossani mi ha solo chiesto di organizzare la visita.”
“Aldo, non voler non vedere. Se organizzi questa visita bene, per come sta Bossani, magari in due mesi sei il nuovo capo. Ma non riesco a capire se ti interessi o no.”
Aveva ragione, e aveva ragione anche sul fatto che io mi rifiutassi di vederlo, ma non era questo il punto importante Mi aveva dato la battuta che cercavo da mesi. Feci un respiro lungo, come si fa prima di buttarsi per un tuffo dall’alto.
“Orietta, sei tu che vuoi non vedere. Se vuoi parlare di quello che mi interessa, lascia perdere Bossani o l’azienda o Bourdeais. Parla di te. Parla di cosa devo fare perché tu mi consideri. Al di fuori di qui.”
Rimase in silenzio, ma non sembrava sorpresa né delusa, così continuai.
“Sai benissimo cosa voglio, lo sai da quella sera sulla spiaggia. Sono anni che giochi con me. Sai benissimo che ti voglio, che voglio vivere con te. Non riesco più ad aspettare, mi dici, ora, cosa ti ferma, cosa mi manca perché tu ti innamori?”
Non mi guardava, il suo sguardo mi sfiorava ma puntava un poco più in alto, verso la foto di un equilibrista che era appesa in ufficio, dietro di me. Io non riuscivo a fermarmi. Anche se mi mancava il fiato e mi mangiavo le parole.
“Me lo devi, cazzo, non puoi flirtare con me tutta la vita. Dimmelo, dimmi anche solo che se fossi l’ultimo uomo sulla terra staresti con me. Almeno avrei un piano.”
“Sarebbe divertente”, adesso mi guardava negli occhi, “Ma se ti dicessi di no, che nemmeno in quel caso?”
Persi un battito. Respirai di nuovo, così la mia voce uscì meno sincopata, più rassegnata. “Almeno lo saprei, e sarebbe meglio, o forse no, sarebbe peggio ma almeno lo saprei. Avrei una chance di sentirmi libero.”
Mosse una mano come a scacciare un pensiero. “Libero da me?”
“Dall’idea di te.”
Abbassò gli occhi, sembrava riflettere sul concetto. Ora sorrideva. “Io e te insieme, non qui dentro, non io e te insieme qui dentro in questa azienda in queste stanze, non in questa ripetizione quotidiana. Sbatti qualche porta, sorprendimi e verrò con te.”
Recuperai quel battito, con gli interessi. Sapevo cosa volevo fare, cosa dovevo fare, ma il mio corpo era ancora incerto, non voleva osare. Dopo qualche secondo di paralisi mi alzai e girai intorno al tavolo, arrivai dietro la sua sedia, dietro a lei. La baciai sui capelli anche se dal corridoio ci avrebbero potuto vedere. Aveva il profumo dell’inchiostro, e restai immobile a sentire la corrente che ci attraversava.
“Cominciamo a lavorare su questa visita, allora.”
Lei era già attaccata al telefono, stava incominciando ad organizzare.