Preparare la visita del nuovo capo europeo non era stato complicato, anche se Bourdeais sembrava impersonare lo stereotipo del francese tignoso, arrogante, avaro di parole, e il suo staff amplificava ogni difficoltà.
La squadra italiana, Bossani in testa, si era coalizzata in un rancore muto contro la visita e tutto quello che rappresentava. Oppressione, fine delle speranze, per molti fine dell’ascesa. Quanto bastava per diventare passivi-aggressivi, ignorare ogni richiesta di fare incontrare a Bourdeais clienti o persone importanti, fare scena muta nelle riunioni in cui io chiedevo idee sul come riempire l’agenda della visita.
Avevano lasciato tutto nelle mani mie e di Orietta, un poco per depressione e un poco contando sul fatto che anche io, lasciato da solo, sarei finito male. Non sapevano quanto poco mi interessasse finire bene, e non avevano fatto i conti con il calendario.
Bourdeais, infatti, ansioso di marcare il suo territorio, aveva deciso di venire in Italia appena prima di Natale. Io avevo provato, per facciata, a spiegare al suo staff che non era il periodo migliore, ma non avevano voluto sentire ragioni.
La scusa del calendario, con tutti i clienti occupati nelle loro attività di fine anno e di festeggiamenti, ci aveva giustificato nel proporre una agenda tutta interna, fatta di brevi incontri faccia a faccia tra il capo europeo e tutti i nostri capi e capetti, Bossani per primo, seguita da un pranzo di Natale con i leadership team al completo e finalmente conclusa con un discorso di Bourdeais a tutti i dipendenti, molti riuniti di persona e gli altri collegati in conferenza dalle altre sedi.
In tempi normali sarebbe stata un’agenda inaccettabile, senza un incontro esterno, senza un cliente, ma la prima e principale e inderogabile priorità di Bourdeais era di fare capire a tutti che i tempi erano cambiati e che c’era un nuovo segno del comando. L’approvazione finale era arrivata velocemente, quasi inaspettata, lasciandoci tempo per approntare tutti i dettagli.
15 – Pranzo di Natale
Bossani era depresso, ma non abbastanza da lasciare che fossi io ad andare a prendere Jean-Claude all’aeroporto la sera del suo arrivo.
Lo aveva anche invitato a cena, ma la segreteria del francese aveva declinato con la scusa di una riunione internazionale online. Invece, un quarto d’ora dopo che si sono salutati davanti all’albergo di lusso vicino all’ufficio, io e Jean-Claude ci incontriamo in una saletta privata del ristorante dell’albergo.
E’ stato lui a organizzare la cena, mandandomi dei messaggi privati e senza usare la mail aziendale. Io non ne avevo parlato quasi con nessuno, non sapevo cosa avrebbe potuto volere.
L’ipotesi di minima: dal momento che avevo organizzato io la visita, voleva conoscermi, anche se questo non spiegava la clandestinità della cena. Quella catastrofica: voleva cacciarmi dicendomelo di persona, anche se non sembrava essercene alcun motivo, a volte succede. L’ultima ipotesi possibile non riuscivo nemmeno a nominarla, anche se ci pensavo incessantemente da quando avevo ricevuto l’invito.
Bourdeais parlava un buffo inglese, sembrava Peter Sellers quando simula un accento francese interpretando l’Ispettore Clouseau. Era un vantaggio, io lo capivo bene.
“Ma la Porsche di Bossani è davvero la sua macchina aziendale?” esordisce, saltando ogni convenevole.
“Si, è una eccezione alla policy”, gli rispondo con perfidia, “normalmente le auto sportive non sono permesse.”
“L’azienda non è sua, le eccezioni le devo approvare io, e non mi piace neppure come la guida. Spiegami come è la situazione qui.”
Gliela espongo con pazienza, senza forzature, non ce n’è bisogno. Sono preparatissimo, mi sono preparato per giorni. Con Simone, per approfondire qualche tema particolarmente delicato.
Parlo dell’impasse in cui siamo, della perdita di energia del gruppo. Gli parlo dei risultati dell’ultimo sondaggio sul morale interno, glieli disseziono per ogni reparto, gli faccio vedere quello che i report europei non mostrano. Guardiamo insieme l’agenda del giorno dopo. Ogni incontro, ogni mezz’ora, ogni dettaglio su Bossani e su ciascuno dei suoi boys. Ogni scheletro in ogni armadio.
Il francese è un tipo preciso, per lui il tempo non sembra esistere. Se l’albergo non fosse stato di lusso ci avrebbero già sbattuti fuori a calci dalla sala, invece ci dedicano un cameriere che fa gli straordinari e passa la prima metà della notte a portarci da bere, Il francese beve parecchio whisky, io fatico a reggere il suo passo. Svuoto tutti i cassetti.
Finalmente Jean-Claude mi racconta il suo piano per il giorno dopo. Mentre lui parla io come in un acceleratore rivivo tutto quello che ho provato negli ultimi anni. Sono prima un oggetto, che serve solo a uno scopo preciso. Poi mi sento forte, un passo avanti a tutti, la hybris prende il sopravvento ma dura pochissimo, lascia il posto alla consapevolezza di essere nel posto sbagliato senza sapere come uscirne.
Lui è agli ultimi dettagli, e a me viene una illuminazione. Forse questa volta lo so.
Esco dall’albergo alle tre di notte, vado a casa ma non dormo, passo il resto della notte a pensare, a contare, a scrivere. Ho ancora il tempo per una doccia e per mettermi una uniforme fresca, perché finita la grande pandemia il conformismo nel vestirsi era tornato identico a prima, esattamente come tutti gli altri comportamenti aziendali. Fare tardi in ufficio. Riunioni inutilmente lunghe. Giacca grigia, camicia azzurra, cravatta con le farfalline gialle.
Alle otto sono nel mio ufficio che è il centro operativo della giornata, con Simone e Orietta. Orietta mi guarda inquieta ma non abbiamo tempo per parlare, dobbiamo controllare l’agenda, stamparla per Bourdeais, verificare che tutti sappiano esattamente a che ora devono trovarsi e dove.
Bourdeais arriva puntuale qualche minuto prima delle nove e lo vado a prendere alla reception. Il whisky non sembra avere lasciato segni, mi saluta come mi vedesse per la prima volta e rifiuta di sistemarsi nella board room. “E’ troppo sfarzosa, come tutto qui” e con la mano indica il tavolo intarsiato, ma intende anche l’atrio con il suo lampadario di cristallo, il marmo per terra, le grandi vetrate che guardano la stazione. Farà tutte le riunioni in una piccola sala che usiamo in genere per fare aspettare gli ospiti.
Il primo colloquio nell’agenda di Jean-Claude è con Bossani, che arriva azzimato e puntualissimo. Per me non c’è molto da fare quella mattina, solo bussare con discrezione quando il tempo previsto per ogni incontro sta per terminare, per evitare di accumulare ritardi. La riunione con Bossani dura un’ora, e io uso quel tempo per aggiornare Simone sulla notte precedente e per chiedergli un parere.
Quando vado ad avvisare che l’ora del prossimo colloquio si sta avvicinando, trovo Ottavio già in piedi sulla porta, lo sguardo basso. Mi fa cenno di seguirlo nel suo ufficio, mentre Orietta fa entrare nella saletta il primo della lista del leadership team, Marchetti, il capo delle risorse umane, il capo di Simone.
“Che cristo sta succedendo? Quello stronzo mi ha attaccato per un’ora, mi ha massacrato, quando provavo a spiegarmi sapeva sempre qualcosa più di me, sapeva cose che non avrebbe dovuto sapere”. Si toglie la giacca, per la prima volta da quando lo conosco gli vedo una chiazza di sudore. “Non capisco a che gioco sta giocando, quando gli altri escono dal loro colloquio digli di passare da me”.
Non mi sta davvero chiedendo una spiegazione, vuole solo darmi un ordine. Meglio così, meno mi chiede meno devo mentire.
“Va bene Ottavio”, e torno nel mio ufficio. Simone intercetta il suo capo all’uscita del colloquio con Bourdeais. È rosso fuoco, prima ancora che io gli possa dire di passare da Bossani si è già portato Simone in ufficio.
Simone ci raggiunge dopo un quarto d’ora. “Bourdeais l’ha accusato di avere insabbiato delle denunce interne per molestie. Ha avuto la faccia tosta di chiedermi di difenderlo. Gli ho detto che o lo difende Bossani, o non ha scampo”.
“Da quello che ho capito Ottavio non è nella condizione di difendere nessuno”.
Nel frattempo, anche il capo delle vendite esce dalla saletta, agitato. Corre da Bossani senza neanche guardarci.
Per altre tre ore, e sei colloqui, Jean-Claude Bourdeais massacra, ad uno ad uno, ogni membro del leadership team. Finanza, Operazioni, Progettazione, Prevendita, Legale, Soluzioni. Cresce un’onda di rumore negli uffici, chi orecchia un urlo, chi un’imprecazione e la ripete ai suoi colleghi; i frammenti di informazione vengono collegati, diventano una valanga e si diffonde la voce che la visita del capo Europeo, che era stata derubricata da Bossani a una normale routine, stia prendendo una piega inaspettata.
Io sono l’ultimo nell’agenda di Jean-Claude, la sua ultima riunione prima del pranzo di Natale è con me.
Entro, lui ha un paio di fogli stampati sul tavolo. Me li mette davanti. Li guardo, faccio una correzione a penna. Lui la guarda, mi guarda, scuote la testa, aggiunge una riga a mano sotto la mia correzione e la firma di fianco. Poi firma in fondo, dove c’è il suo nome stampato. Firmo anch’io, anche io due volte, ed esco. È stata la riunione più breve della mia vita.
Ignoro l’ordine di Bossani di passare da lui e raggiungo Orietta nella sala dove mangeremo.
Orietta ha allestito dodici posti attorno a una grande tavola quadrata, con una tovaglia color fuoco, piatti di porcellana bianchi con il contorno rosso sottile che richiama la tovaglia, posate d’acciaio moderniste, bicchieri di cristallo veneziani. Ha deciso tutto lei, ogni dettaglio, e io guardando la tavola riesco per la prima volta a comprendere la sua magia. Questa tavola non ha nulla di particolare che dica “è Natale”, ma guardandola è impossibile non capire che è Natale. Lei è precisa, e parca, e non aggiunge nulla che non sia necessario. Ma nella sua economia di oggetti, di frasi, di emozioni, riesce sempre ad arrivare al punto, e ad arrivarci con una precisione assoluta, esplosiva. La guardo e mi chiedo se lei sappia del dono che ha.
Bossani entra insieme a Bourdeais e io smetto di sognare. Gli altri entrano subito dietro di loro, sembrano rinfrancati, Ottavio deve averli tranquillizzati. È un banchetto alla russa, dove tutto o quasi è già sul tavolo nei vassoi per evitare di avere troppi camerieri intorno. C’è un posto anche per Orietta, anche se non fa parte del leadership team Jean-Claude l’ha voluta dopo averla vista e avere saputo che aveva organizzato tutto lei.
Le flûtes sono già piene.
Bossani, che come da regola è seduto di fronte a Bourdeais, si alza.
“Sono orgoglioso di potere ospitare a Milano Jean-Claude proprio prima di Natale; la sua visita qui, la sua prima visita a un paese dopo poche settimane dalla sua nomina a Presidente Europeo, è la testimonianza dell’importanza del nostro paese nell’economia mondiale e del contributo che la filiale Italiana ha dato all’azienda negli ultimi anni”.
Ottavio invariabilmente comincia i suoi discorsi ufficiali con qualcosa di spiritoso, o che lui crede spiritoso. Ora sembra stia leggendo un comunicato stampa. Continua: “Anni in cui questo gruppo di persone, di cui vado fiero, ha contribuito con un ruolo insostituibile alla trasformazione digitale del paese…” Io smetto di ascoltarlo e guardo gli altri. Bourdeais non sorride ma ascolta, apparentemente paziente. Gli altri non fiatano, ma sembrano molto perplessi dalla prosa così poco Bossaniana.
Il discorso si avviluppa su sé stesso, diventa troppo lungo per una introduzione o per un brindisi, si ripete: “… e in questo processo virtuoso di trasformazione abbiamo contribuito a creare un nuovo modello economico e a creare valore per le aziende nostre clienti…”. Le labbra di Bourdeais si assottigliano, il suo sguardo lascia Ottavio e comincia a girare nervoso per la sala. Per fortuna Bossani finisce. “E quindi voglio iniziare questo pranzo con un brindisi di benvenuto e di Buon Natale a Jean-Claude, a nome di tutto il leadership team e di tutta la filiale Italiana”.
Con un sospiro di sollievo tutti alzano i loro bicchieri, ma Bourdeais si alza, senza dare il tempo a nessuno di bere. Le flûtes tornano sul tavolo, ancora piene.
“Mi dispiace non potermi unire a questo brindisi.” È secco, tagliente.
“Non sono d’accordo con quello che Bossani ha detto, a parte le cose ovvie e banali. Sono venuto in Italia prima che in ogni altro paese perché ero molto preoccupato e volevo capire quanto difficile fosse la situazione. Quello che ho trovato va al di là delle mie peggiori aspettative. Mi è chiaro ora che tu, Ottavio, non hai alcun controllo della situazione, e che sei, insieme ad altri di questo gruppo, la causa del problema. Nel nome del successo a breve termine e dei vostri bonus avete ignorato i processi, disprezzato le regole, ignorato gli obiettivi strategici. Avete messo a rischio il nome dell’azienda, avete tolto la motivazione a dodicimila persone. “
Lo seguo incantato, dice le parole che per centinaia di volte avevo dette a me stesso, senza mai avventurarle fuori.
Bossani è silenzioso ma dal gruppo parte una salva di reazioni non particolarmente articolate.
“Ma…”
“Non è…”
“Questo va contro.…”
“Come si perm…”
“E checcazz…”
L’ultimo è il capo del personale, che sembra avere perso il controllo, paonazzo e con una vena che gli pulsa ben visibile sopra la tempia. Ma Bourdeais alza il tono per soverchiare le voci degli altri e continua.
“Non è più il momento di discutere, questa mattina avete avuto ognuno mezz’ora per convincermi del contrario e avete tutti solo negato quello che a me è evidente. Le decisioni sono prese. Solo per cortesia le comunico prima a voi, tra un’ora le racconterò di persona a tutti i dipendenti.
Ottavio, da questo momento sei fuori dall’azienda. E anche Marchetti. Immediatamente. Ho chiesto alla sicurezza di farvi scortare fuori. Credo che vi sia chiaro il perché e credo che sappiate che meno parlerete di questa situazione, più possibilità avrete di trovare un altro lavoro.
Il ruolo di responsabile della filiale italiana e di capo di questo team viene assunto, con decorrenza immediata, da Aldo Pastore. Simone Pascoli è il nuovo capo delle risorse umane. Le deleghe formali di Ottavio sono state appena assegnate ad Aldo.”
Orietta, che era rimasta impassibile fino a quel punto, mi scarnifica con lo sguardo ma io me ne accorgo appena, incantato come sono a vedere i volti degli altri sgretolarsi. Bourdeais continua.
“Mi spiace per il pranzo di Natale. Ce ne saranno altri. Ora voglio che tutti, tranne Ottavio e Marchetti ovviamente, vengano in auditorium per l’incontro con i dipendenti”. Si alza e se ne va, facendomi cenno di seguirlo. Il banchetto di Natale resta intatto
Fuori dalla porta ci sono davvero due della sicurezza interna che aspettano Bossani, non credo ai miei occhi.
Gli vado dietro, si installa nel mio ufficio per mostrarmi la mail di annuncio che aveva già preparato e, incredibilmente, per chiedermi consiglio su come parlare ai dipendenti.
“Sii diretto e mostra comprensione”, cerco di articolare, “digli che c’è un domani”. Mi interrompe subito.
“No, devono capire che il taglio è netto, che non c’è pietà né comprensione per chi sbaglia”.
“Ok, ma allora non chiedermi di parlare oggi, li confonderebbe, le persone devono metabolizzare che io sia il nuovo, non tutti mi conoscono, non molti sanno che io sono diverso”.
Ci pensa, a lungo. Poi annuisce, e io tiro il più lungo sospiro di sollievo della mia vita.
Dieci minuti dopo, nel lussuoso auditorium da cinquecento persone che era uno dei fiori all’occhiello di Bossani, non c’è più posto nemmeno per una mosca. I superstiti del leadership team sono nelle prime due file, obbedienti e codardi. Io sono al lato della sala ma in prima fila, con Simone di fianco, incredulo per il frettoloso racconto che gli ho appena finito di fare. Orietta guarda dove mi siedo e va in direzione opposta.
Jean-Claude parla, parla a lungo, in un gelo totale, parla dei massimi sistemi e dei valori, parla degli sbagli e delle punizioni, racconta storie di errori che lui stesso ha commesso e di come si è redento, mi ricorda Giobbe. Quarantacinque minuti dopo arriva al dunque, che ormai, grazie al tam-tam aziendale, quasi tutti in qualche modo sapevano, perlomeno nei suoi effetti più visibili. Lo ascolto fare il mio nome, sento la pressione degli sguardi di tutti, sorrido, tirato.
“Ci sono domande?”, chiede alla fine. Non si sente un respiro.
Dopo qualche secondo, uno dei manager più giovani, uno che secondo me avrebbe potuto fare molta strada, alza la mano. Incerto e rosso in faccia chiede “Ma tutto questo succede da… subito?”
Il Presidente Europeo risponde con il suo accento da Clouseau, che ora si è fatto fortissimo e sembra proprio che stia parlando con Cato: “Si, vi ringrazio tutti e vi auguro un felice Natale”, ed esce dalla sala.
Io lo seguo, di corsa, prima che qualcuno riesca a congratularsi con me. Bourdeais deve prendere l’aereo, secondo l’agenda ha solo cinque minuti. Li usa per sedersi alla mia scrivania e spedire la mail che rende tutto questo ufficiale. Poi mi stringe la mano, mi dice che vuole vedermi a Parigi il ventisette dicembre, perché non è tempo di vacanze e dobbiamo parlare, e se ne va.
Mi siedo al posto, al mio posto per un ultimo istante, e mando anche io una mail. La porta sbatte, rumorosamente.
resta solo il finale....
questo e' il sotto finale. sabato prossimo, la fine....