Noi eravamo piccoli. All’inizio eravamo proprio piccoli, abbiamo impiegato cinque anni per diventare dieci ma poi siamo sbocciati e siamo diventati in fretta cento, e dopo poco duecento. Non eravamo più piccoli.
Simone Pascoli era arrivato fresco da un master in organizzazione aziendale all’inizio di quella crescita, il nostro dodicesimo impiegato, e dal suo arrivo mi sembrava di avere lavorato solo con lui. Lui trovava le persone, io capivo se erano brave abbastanza. Lui le convinceva a venire da noi, io le accoglievo e decidevo cosa avrebbero fatto.
Eravamo diventate le persone di fiducia di Michele Cacciari, il fondatore e unico socio della nostra azienda. Michele l’aveva fondata a cinquant’anni, dopo una lunga e noiosa carriera in STET, un carrozzone parastatale. Poteva scegliere tra l’abbandonare la moglie o cambiare azienda, aveva scelto la moglie e si era riscoperto creativo.
Aveva trovato ragazzi come me fuori dall’università e ci aveva messo al lavoro. Noi ci facevamo sfruttare con semplicità, senza fare storie, e fino quando eravamo rimasti in pochi era stato divertente. Quando era iniziata la crescita erano arrivati i guai, le gerarchie, le gelosie professionali. Dei ragazzi degli inizi eravamo rimasti solo io e Simone; gli altri si erano dispersi nella diaspora delle cento aziende di consulenza milanesi, chi per una promozione mancata, chi per cinque milioni di lire in più. Alcuni per essersi innamorati di un collega, e d’altronde di chi si sarebbero potuti innamorare visto che passavamo la buona parte delle nostre giornate insieme?
Michele aveva una sua logica nel gestire le persone, ed era quella di evitare ogni scelta in superficie ragionevole. Mandava gli introversi a parlare con i clienti, assegnava ai disordinati la responsabilità dei progetti, chiedeva ai noiosi di organizzare le festicciole di Natale. Ogni tanto ci buttava lì la parola “contrarian”, con noncuranza, ma si vedeva che ci credeva. E funzionava abbastanza bene, a giudicare da quanti eravamo diventati.
Con questa logica io ero stato promosso a fare il responsabile tecnico senza avere una formazione informatica o economica e soprattutto senza alcun appetito di comandare. E Simone, al suo primo lavoro vero, il capo delle risorse umane.
Un’area in cui Michele non aveva mai lasciato che nessuno mettesse mano era quella dei soldi. Solo lui sapeva come andasse l’azienda. Noi potevamo intuirlo dalla generosità altalenante dei premi di fine anno, ma nessuno avrebbe potuto dirlo con precisione. Credevamo di conoscere bene, invece, il disprezzo di Michele per i nostri concorrenti multinazionali, ed eravamo abituati alle sue lunghe tirate sulla loro mancanza di etica, sulla presunta evasione fiscale e soprattutto sull’ingordigia. Ogni tanto assumevamo dei ragazzi da una di quelle aziende e li accoglievamo con un fuoco di fila di domande che sfioravano la richiesta di abiura. Le storie che i poveretti raccontavano sui loro lavori passati sembravano identiche a quelle che avremmo potuto raccontare noi, ma Michele, implacabile, ci intimava di diffidare. Le multinazionali erano il male assoluto. I pochi nostri colleghi che facevano il passaggio contrario, lasciandoci per una di queste aziende, venivano cancellati dalla nostra storia aziendale. Se avessimo avuto delle loro statue, le avremmo abbattute.
Quando tutto d’improvviso cambiò, la sorpresa fu enorme. Simone arrivò nella mia stanza come un ossesso. Si chiuse la porta alle spalle. “Cacciari ci ha venduti”. Era uno scherzo, pensai. Lui continuò, mi conosceva bene: “Non è uno scherzo. Ci ha venduti. Per quaranta miliardi. A quelli che ha sempre odiato”.
Michele era introvabile. Ricostruimmo la cosa con due altri colleghi del gruppo originario. Era vero, la notizia era sulle agenzie di stampa. Facemmo due conti, quaranta miliardi ci sembravano pochi ma non conoscevamo la nostra situazione finanziaria, potevamo solo stimarla, e Michele restava disperso. Non si fece trovare per tutto il giorno, Simone e io dovemmo chiamare tutti in ufficio per ufficializzare una cessione di cui non conoscevamo né i modi né i motivi.
Ricomparve il giorno dopo, ce lo aspettavamo sconvolto e lo trovammo sereno. Non si giustificò, non ci diede un perché. Ci disse soltanto che io, Simone e altri due manager eravamo una parte essenziale dell’accordo e che saremmo dovuti per forza entrare nella multinazionale; per aiutarci ad accettare c’erano dei soldi se fossimo rimasti, soldi in più ogni anno per due anni. Non tantissimi, con gli occhi di oggi, ma comunque abbastanza per convincerci. E soldi a parte eravamo giovani e pensavamo di poter cambiare tutto, anche le multinazionali, e non avremmo mai lasciati soli tutti quelli che avevamo appena finito di assumere.
Il travaglio, la transizione, durarono otto settimane. In soli due mesi, Michele sparì e il suo posto venne preso da due Venusiani, come chiamavamo i capi della multinazionale. I giovani colleghi erano uguali a noi, ma i capi erano completamente diversi. Vestiti diversi, parole diverse, riunioni diverse e soprattutto la certezza inattaccabile che il loro modo di fare le cose, ogni cosa, fosse meglio del nostro. Ci chiedevano come gestissimo i progetti, ridacchiavano alle nostre risposte e ci suggerivano corsi interni a cui iscriverci. Alle prime riunioni per discutere di come avevamo organizzato i processi di approvazione delle vendite scoppiò un putiferio perché si resero conto che ogni venditore aveva una autonomia nel decidere gli sconti dieci volte maggiore di quella che loro concepivano. Quando gli spiegammo come decidevamo, ogni anno, che persone promuovere e che aumenti dare ci chiesero se fossimo un kibbutz. Simone su questo si intestardì, imbastì discussioni che sembravano comizi terzinternazionalisti, minacciò di creare una rappresentanza sindacale e venne pagato per andarsene dopo pochi mesi
L’anno che seguì fu difficilissimo, Michele aveva ragione, i nostri nuovi padroni erano davvero nefasti. Arrivai stremato alla pentola d’oro, il bonus di fine anno. Stavo pensando a cosa fare della mia vita quando mi chiamò Giorgio Fantoni che era il capo della filiale italiana: la persona che ci aveva comprato. L’avevo visto solo un paio di volte, sempre in mezzo a molti altri. Io lavoravo per un suo Venusiano e non avevo avuto rapporti diretti con lui.
Il suo ufficio era una fantasia sul tema del megadirettore galattico. Ma quello che mi voleva dire non era in sintonia con lo sfarzo. Avevano scoperto, e gli era servito un anno, che quello che avevano comprato per quaranta miliardi pensando fosse una occasione ne valeva forse quattro, pagati i debiti che Michele aveva lasciato e di cui nessuno si era accorto. Insomma, erano stati truffati e ora non gli restava che fare buon viso a cattiva sorte, anche perché Cacciari aveva venduto tutto ciò che aveva qui in Italia ed era a Barbados a imparare tardivamente il surf.
Fantoni mi chiese se volessi prendermi la responsabilità di tenere in vita il nostro gruppo, quello che restava dell’azienda che avevano comprato. Era una promozione, ma avvolta nella carta moschicida. Se avessi detto di no, mi disse, il gruppo sarebbe stato smantellato perché nessun altro manager Venusiano voleva rimanere associato a una operazione così fallimentare.
Ci pensai una notte e un giorno. Scrissi una lunga lista di condizioni, tra cui quella di riavere Simone con me, ma non mi sembrava ancora abbastanza. Poi la seconda notte sognai Michele su una tavola da surf, e decisi che avrei accettato. Se li aveva fregati lui, sarei riuscito a farlo anche io. Magari non per i soldi ma per l’impagabile sensazione di avere aggiustato qualcosa di rotto.