Insomma l’inizio era stato difficile ma c’era già stata quella presa di coscienza, o forse la rivendicazione, di essere un piccolo organismo arrabbiato entrato in un sistema più grande. Che si nutre del sistema ma che cerca al tempo stesso di cambiarlo. E che non deve farsi scoprire.
Mentre passavano gli anni e cominciavo a fare carriera scoprivo che nel salto dal piccolo al grande si possono imparare molte cose. Soprattutto se si tengono occhi e orecchie aperti, e se si hanno dei maestri. Certo non le virtù, quasi mai, ma ci sono tantissimi vizi interessanti da apprendere, se ci si è portati. Non solo i vizi piccoli come slealtà e furbizia, che conoscevo già piuttosto bene, ma anche l’arroganza, l’onnipotenza, l’ingordigia, l’attitudine al tradimento. Ero a contatto con persone incredibilmente intelligenti che non riuscivo ad ammirare perché tutte erano state attaccate da uno o da molti di questi vizi e ne risultavano corrotte.
Quasi sempre non se ne accorgevano nemmeno, è un dono di pochi rendersi conto davvero dei propri difetti, e d’altro canto il mondo in cui vivevano o in cui ambivano a vivere, nel caso di chi tanta carriera non l’aveva ancora fatta, gli restituiva un’immagine fatta esattamente degli stessi vizi. Ed è difficile rendersi conto di essere stronzi se nessuno te lo dice mai.
Poi, non sempre e non tutti finivano bene. Fantoni, per esempio, fu travolto dalla sua hybris e scomparve all’improvviso.
Maestri a parte, la multinazionale è anche, come tutti i grandi sistemi chiusi, una famiglia. Una grande famiglia. È fondamentale che lo sia perché se non lo fosse sarebbe impossibile passarci così tanto tempo dentro senza impazzire o uscire sbattendo la porta.
Per potere continuare ad avere persone che trascorrono le notti a finire progetti, che rinunciano ai fine settimana per preparare presentazioni, che rimandano i viaggi di nozze per rimediare a casini combinati da altri, non basta pagarle, quando va bene, il cinque per cento in più degli altri. Bisogna trasformare l’azienda in qualcosa che dia una illusione di completezza alle loro vite.
Così si fa in modo che ci si possa trovare tutto. Successo, affetto, amici, nemici, invidie e gelosie. Droghe, piacere, dolore. Si va nelle stesse palestre, si esce tutti a cena, ci si innamora a turno o tutti insieme, ci si sposa e ci si separa, si organizzano i week-end, le vacanze, si portano i figli nei nidi aziendali.
Io ero solo da qualche anno, quindi ero più interessato agli amori che al resto. La solitudine quotidiana cominciava a pesarmi e fuori dal lavoro non sembrava possibile incontrare nessuno, letteralmente non c’era il tempo per farlo.
Nel frattempo, l’azienda continuava a crescere, aprivamo uffici, diventavamo sempre di più. Più fatturato, più persone, più manager. Dopo la caduta in disgrazia di Fantoni, i capi Europei avevano velocemente nominato un nuovo Amministratore Delegato, Andrea Storti, un dirigente interno che a me sembrava vuoto di carisma e pieno di dipendenze, anche se, come sempre, forse era solo un pettegolezzo. Non so come ma io a lui ero piaciuto abbastanza da non indurlo a epurarmi come aveva fatto con molti altri colleghi che avevano lavorato direttamente per Fantoni. Quindi continuavo a navigare, ora ero a capo di una piccola divisione dove sviluppavamo software e avevamo una qualche autonomia; eravamo abbastanza piccoli da poterci disinteressare delle lotte politiche interne dove i troppi sottocapi si combattevano l’uno con l’altro per avere più potere, più persone, e per candidarsi alla successione di Storti: secondo gli stessi pettegolezzi che lo volevano alcolizzato, sarebbe durato poco.
In quella divisione potevo cercare di applicare le mie regole, e le mie idee. E cercavo l’amore.
2 – In treno
Ogni anno organizziamo una festa aziendale che, a seconda degli umori dei capi, può durare un intero fine settimana e celebrarsi in qualche località turistica in mezza stagione, o esaurirsi in una sera e una nottata estenuata in un locale milanese. Abbiamo provato a fare partecipare anche mariti e mogli in nome dei valori della famiglia e dell’equilibrio tra lavoro e vita personale, ma non ha funzionato. Era come un addio al nubilato con i genitori seduti al tavolo vicino.
Così questi eventi hanno preso una piega un poco rave e anche io, da quando ho avuto voce in capitolo nell’organizzazione, ho spinto perché si lasciassero succedere più avventure possibili. Più ubriachi, più nuove coppie, più tradimenti, più sciocchezze nella notte, anche al costo di dovere passare del tempo a convincere i carabinieri locali che l’avere trasformato la via Aurelia in una sala da ballo alle tre del mattino fermando il traffico e coinvolgendo chiunque passasse di lì fosse stata solo una ragazzata. La promiscuità, in azienda, costituisce un valore prezioso. Non solo promiscuità sessuale, ma promiscuità di emozioni, gioie, passioni, che compensi la atonia emotiva del lavoro quotidiano, della routine, dei giorni sempre uguali. Un company meeting di successo, dove si creano storie e leggende che si tramanderanno tra generazioni di colleghi, è più importante per la salute dell’azienda dei risultati finanziari. L’epica batte la finanza. Da sempre.
Avere un ruolo, meglio se positivo, in qualcuna di queste avventure - che possono solo restare ufficiose - si può anche trasformare in un aiuto alla carriera, se si è dalla parte giusta della morale. Ho sentito raccontare che Andrea Storti, l’amministratore delegato dopo Fantoni, diventò dirigente giovanissimo per avere rianimato un collega che, pieno di mdma fino ai capelli, aveva pensato bene di finire la notte sul fondo di una piscina, piena. E allora sarebbero stati guai grandi. Nessuno lo confermerà mai, ovviamente.
Un anno abbiamo affittato un treno intero e siamo andati in riviera. Averlo tutto per noi era la sublimazione delle gite scolastiche in treno del liceo. Ora eravamo grandi e il treno era nostro, e tutto quello che nelle gite scolastiche era solo una vaga possibilità ostruita da mille divieti qui era reale e alla portata di tutti. L’alcool, la droga, il sesso restavano scoraggiati e censurati da ogni norma di comportamento aziendale, ma erano a portata di mano e noi ce li prendevamo, in gruppo. L’attenzione che riservavamo alle mail che descrivevano pedanti i comportamenti da tenere e quelli da evitare durante il meeting era inferiore all’attenzione con cui si ascoltano le hostess che fanno la dimostrazione di sicurezza prima di un decollo.
Quel viaggio d’andata in treno è stato un fiorire di piani, di intenzioni, una continua compilazione di classifiche indicibili e di sondaggi ammiccanti, una allegrissima festa di tutto quanto è scorretto dire e fare tra colleghi. Dagli occhi più belli alle migliori avventure in ascensore per poi arrivare naturalmente ai più scopabili per entrambi i sessi, mescolando sensibilità adulte a quelle da seconda media che non ci avevano mai abbandonato e lasciando trapelare i risultati con parsimonia.
Il sabato notte dopo discorsi, premiazioni e danze ufficiali ci siamo sparpagliati per la spiaggia; nel mio gruppetto eravamo una decina, siamo saliti dalla riva verso uno stabilimento, abbiamo affiancato quattro lettini e ci siamo creati una piccola piazza dove accamparci. Stretti, teste su pance, schiene su gambe, maglioni stesi sopra di noi come fossero coperte. La conversazione era piana, straordinariamente ordinata, qualcuno partiva da un pettegolezzo e qualcun altro lo trasformava in una storia vera, lasciava intravedere i lati più interessanti di sé, faceva sapere qualcosa che non aveva mai detto. Prima temi sciocchi, insignificanti, poi piano piano si saliva di livello ed emergevano infelicità insospettate, tradimenti epocali. Era una corsa a svestirsi lasciando scoperto per qualche istante un pezzo di anima, qualcosa che potesse suscitare interesse; non c’era alcuna pulsione fisica in quel gruppo di corpi sospesi sopra la sabbia, era una grande gara di seduzione verbale collettiva, qualcosa di simile alle sedute di autocoscienza nella sala di casa di quando si era ragazzi e i genitori erano via nel fine settimana, negli anni Settanta.
Mentre era il mio turno e raccontavo di quanto avere il potere mi facesse molto più male che bene, una mano cominciò a stringere la mia. Non potevo sapere con precisione di chi era, ma sapevo benissimo di chi speravo che fosse. Restammo così fino a quando cominciava a schiarire. Poi, intorpiditi, ci avviammo tutti insieme verso i riti della mattina di chi non è andato a dormire.
Il ritorno in treno fu silenzioso. Il sonno perduto, lo smaltimento di alcool e pastiglie dominavano umori e comportamenti. Davanti a me dormiva Orietta Bergomi, la mia speranza inespressa della notte precedente. Orietta erano i capelli dell’ancella della Venere di Botticelli, una voce roca e un’apparenza riservata rotta da pochi e memorabili atti di esibizionismo; due zigomi tondi che si accendevano a comando e due occhi lunghissimi. Ora quegli occhi invece di essere chiusi nel sonno erano rimasti leggermente aperti, come in una dichiarazione di attenzione. O come in una promessa, ad essere più sicuri di sé. “Ti voglio guardare”, mi dicevano, e io non riuscii a smettere di fissarli per tutto il viaggio. Il mio stato di ipnosi era visibile ai pochi altri svegli nel vagone, ma non mi importava. Volevo essere sicuro che quando lei avesse aperto davvero gli occhi avrebbe visto che la stavo guardando. Non volevo più nemmeno sbattere le palpebre, per paura di perdere l’attimo.
Quando finalmente successe non fu memorabile. Il treno si stava fermando e l’attimo di perfetta poesia che mi aspettavo non ci fu. Uscimmo tutti sparsi dalla stazione, pronti a rivederci in ufficio la mattina dopo.
“Bisogna trasformare l’azienda in qualcosa che dia una illusione di completezza alle loro vite.”
-questa frase mi ha letteralmente steso, perché è esattamente ciò che ho sempre pensato e forse mai detto..