La gerarchia geografica delle multinazionali definisce successo o disgrazia dei manager dei vari paesi. Schemi misteriosi accorpano le nazioni in gruppi, seguendo i più diversi criteri. Il risultato è che ogni multinazionale è fatta a modo suo. Ma grossolanamente tutte dividono il pianeta in Nord America e Resto del Mondo, che poi è sparito in due o tre macro-continenti, spesso Europa, Asia-e-Australia e America Latina, ma a volte semplicemente Europa e tutto il resto. L’Africa compare di rado, come è il suo destino.
L’Europa, a sua volta, è separata in sei o sette gruppi di nazioni secondo latitudine, longitudine, lingua, propensione al risparmio o al dissipamento, regimi di governo, storia, dimensione o struttura economica, tutto può valere. Quindi l’Italia può appartenere al Sud Europa, o all’Europa Occidentale, a volte starsene da sola o essere subordinata alla Francia, o trovarsi a guidare magari la Grecia e Malta.
Seguendo dal basso verso l’alto questa gerarchia si ottiene il ciclo delle “Business Review” che è il metronomo silenzioso che anima le multinazionali. Ogni livello della gerarchia geografica ha il suo gruppo dirigente, un capo, un assistente del capo, un responsabile per ogni funzione, le vendite, lo sviluppo, il supporto, le risorse umane, i legali, la finanza. E ogni livello, ogni mese o ogni trimestre, fa le pulci al livello inferiore, in quella che si chiama una Business Review. Un interrogatorio mascherato da discussione, una richiesta di spiegazioni e ragioni per ogni scostamento dal previsto, che quasi sempre si conclude con un pistolotto cerchiobottista del capo del livello superiore, che ricorda ai sottoposti i loro errori ma ne sottolinea i meriti pensando così di evitare sia entusiasmi che tendenze depressive. In verità, nella maggior parte dei casi, gli errori o i meriti o entrambi sono risibili, e la conclusione risuona visibilmente falsa.
Il livello intermedio, a sua volta, sarà poi interrogato dal livello superiore e così via, per almeno tre o quattro passaggi, formando un’onda che parte dalle singole nazioni, raccoglie i dati e le impressioni, li accumula, li consolida, e come succede nel telefono senza fili, li distorce fino a renderli irriconoscibili e inutili quando si arriva alla fine della catena.
Quasi sempre questi interrogatori sono virtuali, fatti per telefono o per videoconferenza e durano un’ora o poco più, ma molte multinazionali, almeno una volta all’anno, organizzano un extended play dove tutti volano da qualche parte per incontrarsi e in quelle circostanze la pena può durare anche ore.
3 – Grand Plateau
“Ci sono dei riti da rispettare!”
Storti era su di giri e nel ristorante si sentiva solo la sua voce. Gli piaceva comandare, questo era chiaro a tutti. Era in carica ormai da due anni e dopo un inizio difficile, in cui molti pensavano sarebbe stato una meteora, ora sembrava saldamente in sella. Il suo vizio di bere disordinatamente, che era visibile a tutti, non aveva avuto ricadute professionali - si trattava di un alcolista funzionale - ma lo portava a materializzare il suo comando anche al di fuori della sfera lavorativa.
Voleva avere ragione su tutto, e i ristoranti erano lo spazio ideale per esercitare questo suo bisogno. Ordinava lui per l’intero tavolo, criticava aspramente chi chiedeva eccezioni e teneva musi lunghissimi a chi osava argomentare contro le sue scelte. Il tutto a voce alta, a beneficio dei camerieri e di tutti i tavoli vicini.
Quella sera il rito di cui berciava Storti in realtà si stava già compiendo: tutto il gruppo dirigente della filiale italiana era a cena in un ristorante a Porte Maillot, proprio dove finisce Avenue de la Grande-Armée, esattamente a metà del cannocchiale tra l’Arc de Triomphe e la Grande Arche.
Dieci anni e un amministratore delegato prima, la sera che precedeva la Business Review europea di quell’anno, la dirigenza di allora era entrata per caso proprio in quel ristorante, Le Congrès. L’ambiente era fané, i camerieri vecchiotti e poco cordiali con gli stranieri, il conto astronomico ma la review il giorno dopo era andata benissimo, e l’Italia era stata promossa al rango di geografia di primo livello, seguita direttamente dal quartier generale europeo, senza dovere più riportare prima agli odiati francesi.
Un trionfo, e la nascita di un nuovo rituale scaramantico, la cena a Le Congrès. Io ci partecipavo da cinque anni, da quando Fantoni, il predecessore di Storti e creatore della tradizione, mi aveva promosso e io avevo acquisito il dubbio onore di partecipare alla review.
Il processo di avvicinamento all’evento durava almeno tre settimane di lavoro ininterrotte, inclusi i fine settimana, dedicate a preparare enormi fogli Excel stampati in A3, ognuno denso di migliaia di cifre, e poi a intavolare interminabili discussioni sul come fare emergere dai quegli stessi numeri solo quello che andava bene, mascherare le debolezze e gli errori e preparare storie più o meno credibili nel caso la maschera fosse caduta.
Di queste settimane pre-review, di questa immersione collettiva in una bolla che ci faceva dimenticare tutto, amici, clienti, amori, per pensare solo a come fare bella figura, o perlomeno a come non farla troppo brutta, il giorno della vigilia era la sola parte che mi fosse sempre piaciuta, credo proprio per la sua funzione di cesura tra una preparazione sfiancante e l’atto finale. E per un gusto un poco goliardico.
Ci incontravamo tutti in ufficio la mattina, di solito eravamo almeno una dozzina di colleghi tra vendite, prodotti, supporto, marketing, finanza e risorse umane. Ognuno si metteva sottobraccio tre o quattro enormi faldoni di carta che contenevano la nostra presentazione, e si saliva sui taxi per l’aeroporto. Poi in aereo si faceva finta di ripassare, in realtà ci si comportava come una classe di liceo in gita. Ci si alzava dai posti, si facevano battute ad alta voce. Un modo per esorcizzare il nervosismo.
Arrivati a Parigi, in albergo, un anonimo Hyatt intorno all’aeroporto dove si sarebbe tenuta la review il giorno dopo, si faceva un ultimo ripasso collettivo serio fino all’ora della cena, poi un altro taxi, Le Congrès, e io potevo tuffarmi su un Grand Plateau di frutti di mare e dimenticarmi per mezz’ora del resto. Finivamo sempre, a meno che non diluviasse, per camminare fino all’inizio degli Champs Élysées prima di decidere di tornare in albergo e affrontare il sonno agitato di chi non si sente preparato. Quel giorno, e il successivo, erano forse gli unici due dell’anno in cui ci sentivamo davvero un gruppo, in cui anche le solite invidie e gelosie erano accantonate, perché sapevamo che dall’esito della review dipendevano le nostre fortune, monetarie e morali.
Quella sera però Storti stava esagerando, voleva dare il suo imprinting al team e aveva già bevuto un po’ troppo. Insisteva oltre misura perché tutti prendessero i frutti di mare, sostenendo che anche un solo astenuto avrebbe portato sfortuna. Tra la sua insistenza a forza di grida e sfottò e il retropensiero che ognuno aveva di non volere essere poi accusato di menare gramo se qualcosa non fosse andata bene, dopo due o tre dinieghi anche i più restii cedettero.
Io ero infastidito da Storti, da quanto beveva e da quanto si comportava da cazzone dopo aver bevuto, ma le ostriche e i frutti di mare mi andavano benissimo, anzi ne approfittavo per mangiare tutto quello che i contrari lasciavano nell’enorme piatto a centrotavola dopo avere piluccato un’ostrica solo per bandiera e cenato a pane e qualche gamberetto. Il mio opportunismo gastronomico rifletteva quello aziendale, in qualche modo continuavo ad approfittare di quello che nell’intimo disprezzavo.
Quella sera la forzatura di Storti aveva lasciato tracce nell’umore di tutti e per la prima volta un paio di noi si sfilarono dalla passeggiata e rientrarono direttamente in albergo, e io pensai fosse un cattivo presagio. Ero scaramantico come gli altri, se non di più.
La review cominciava alle otto e sarebbe andata avanti per cinque ore. Storti non aveva né passione né comprensione per i numeri, e quindi nei due anni precedenti aveva tenuto per sé solo l’introduzione, lasciando poi che il direttore finanziario, Giacomo Rigotti, parlasse per almeno un’ora dei risultati e delle previsioni che avevamo per i mesi a venire. Quando Giacomo si taceva, iniziavano le domande e lì ognuno doveva parare e rispondere per quanto lo riguardava. Fino a quel giorno aveva funzionato.
Con Rigotti ero sempre andato d’accordo perché era uno sgobbone preciso, della razza di quei brianzoli con cui non vorresti mai parlare di politica o degli affari tuoi ma da cui non devi aspettarti cattive sorprese. E conosceva i numeri.
Alle sette e mezza eravamo tutti nella sala, noi e gli europei. Per ognuno di noi c’era un corrispondente europeo, e in alcuni casi più di uno, più qualche osservatore dal quartier generale americano; eravamo in trentadue in tutto.
La sala era enorme, senza finestre, fatta per grandi eventi, per concorsi di bellezza o feste di beneficenza, ed era disposta con i tavoli affiancati a formare i lati di un rettangolo, lasciando un grande vuoto centrale. Sei persone per ogni lato corto, dieci sui due lati lunghi.
Grandi segnaposto con i nomi di tutti, Storti era al centro di un lato corto e il capo dell’Europa, un certo Hoist di cui non sapevamo molto e che era appena stato promosso a quel ruolo dopo essere stato il capo della Germania, al centro dell’altro.
Tra i due capi c’erano almeno otto metri di distanza. Poi intorno a Storti i segnaposto dei manager più importanti, Rigotti a destra e Marsici del personale a sinistra, e via via tutti gli altri, sempre mantenendo la simmetria con i corrispondenti europei. Io ero poco importante, e quindi il mio posto era defilato, su uno dei lati lunghi del rettangolo, dove sedevano i capetti con meno potere.
Tra noi e gli europei, a dividere gli schieramenti al centro dei due lati lunghi, c’erano gli osservatori americani, a volte dei manager molto in alto nella gerarchia, a volte dei ragazzi mandati per fare esperienza.
La tradizione era che, prima dell’inizio, ognuno di noi desse una copia del faldone A3 al suo corrispondente europeo (per questo eravamo partiti da Milano carichi di carta) e ne approfittasse per scambiare con lui qualche battuta, più o meno formale a seconda del livello di intimità che aveva. Era di fatto l’unico momento che avevamo per capire se gli europei avessero già deciso quali temi approfondire, dove farci il culo e dove no, quindi era importante che tutti fossimo puntuali. Il mio collega europeo era in quel ruolo da più di dieci anni e stava tirando a campare, non aveva intenzione di farsi notare attaccandomi o mettendomi in cattiva luce, ma mi fece notare che mancava Rigotti. Nella concitazione del momento nessuno se ne era accorto.
Cercai lo sguardo di Storti e gli indicai il posto di Rigotti, vuoto, e il capo finanziario europeo, seduto al suo posto già con l’aria scocciata per non avere ricevuto la sua copia del faldone. Storti sbiancò, in un attimo eravamo tutti e due con il cellulare a fare lo stesso numero, ma non rispondeva. Corsi su, la sua stanza era al mio piano, l’avevo vista quando avevamo fatto il check-in. Suonai, battei i pugni.
Mi aprì, in mutande, e immediatamente rientrò in bagno a vomitare.
“Voi e le vostre cazzo di ostriche”, e una serie di insulti al mondo e a Storti.
Non era in condizioni di alzare la testa dalla tazza del cesso, figuriamoci di essere presente alla review. Quando scesi e gli dissi cosa avevo visto, a Storti si abbassarono i lati della bocca in una smorfia e sembrò ingobbirsi. Mise via il sorriso prestampato da capo, con cui stava stringendo le mani a tutti e andò a sedersi, serio, aprendo forse per la prima volta la sua copia del faldone.
Scoprimmo in fretta molte cose di Hoist. Che non gli piacevano i preamboli. Che credeva che la verità stesse nei numeri. Che non gli interessavano le considerazioni qualitative e gli aneddoti. Che per lui l’amministratore delegato di una società deve conoscere tutti i dettagli, non essere semplicemente un allenatore. O un portavoce. Che amava la precisione. Che ogni affermazione doveva essere provata. Non risparmiò a Storti nemmeno uno dei chiodi con cui inchiodarlo alla sua croce. Mani, costato, piedi. La prima ora fu un massacro, e Storti annichilito. Poi Hoist tacque e per le altre quattro ore ce la cavammo discutendo con gli altri europei dei dettagli delle varie divisioni; Hoist non parlò più fino alla fine, quando è tradizione che il capo europeo ringrazi il paese per il lavoro fatto, con parole di circostanza nelle quali, dalle diverse enfasi degli aggettivi, spesso gli aruspici possono capire come sia andata. Fu incredibilmente breve.
“Ringrazio i colleghi di Storti per la loro preparazione”.
Storti non tornò con noi a Milano nel pomeriggio come era programmato. Non sapemmo mai cosa fece quella sera ma venne in ufficio due giorni dopo, lo svuotò e salutò chi c’era. Nessuno lo rimpianse, solo Rigotti, che aveva buon cuore, lo chiamò per scusarsi.
grazie!
La mia prima review arrivò dopo due mesi in azienda. Senza viaggio. Il foglio A3 che mi ricordo metto era quello delle performance di H1 e forecast H2. 76 righe per 12 colonne. Ho capito che dovevo conoscere i miei numeri molto bene.... e vederci molto bene, vista la dimensione del font