A turbare il ritmo perfetto scandito dalle Business Review ci sono le visite dei grandi capi che dall’America arrivano a rendere visita alle periferie. Lo fanno perché pensano che ci faccia piacere (il loro ego non ammette il dubbio) e soprattutto perché sanno che le Business Review non gli permettono di capire davvero che tipi siamo. Quindi vengono per controllare, e per valutarci nel mondo reale.
Quelle visite durano sempre poche intensissime ore, ma la loro preparazione richiede mesi e l’esecuzione è sempre appesa a un filo.
Un contrattempo, un piccolo errore che in situazioni normali verrebbe archiviato senza pensarci, durante questi eventi può costare una carriera.
Uno dei miei colleghi migliori, proprio quello che avevo già indicato come colui che avrebbe potuto prendere il mio posto, aveva organizzato un incontro con un gruppo di clienti dove l’attrazione principale era la presenza di un grande capo americano in visita, un personaggio con uno stravagante carisma di cui parlavano spesso anche i giornali italiani.
Mentre moderava la discussione e la traduceva, il collega aggiunse alla risposta del grande capo un suo commento personale, non carico di saggezza ma assolutamente inoffensivo. Una precisazione non necessaria, ma sufficiente a causare una alzata di sopracciglio del carismatico leader. Fu abbastanza per eliminare l’incauto dalla lista dei miei possibili successori, e per terminare per sempre la sua carriera.
Per me queste visite erano comunque divertenti, rappresentavano la parte avventurosa del lavoro, come quando a un funzionario di ambasciata viene chiesto, una volta ogni tanto, di partecipare anche solo come comparsa a una qualche trama ordita dai servizi segreti. Ho passato una notte insonne guidando da Milano a Roma un furgone con tutto il mio team dentro per arrivare a prendere il grande capo in aeroporto perché l’Italia era in sciopero (ma lui arrivava con l’aereo privato). Ho parlato con persone con cui non avrei mai parlato altrimenti, mi sono ubriacato più volte a fine visita, e una volta mi sono definitivamente innamorato.
È successo proprio quella volta in cui non avevo nemmeno un capo – Storti era stato cacciato e il suo successore non era ancora stato designato. Così mi era toccato non solo organizzare tutto ma anche dover fare io da ospite.
4 – Burger King
Vengono, a volte, a visitarci.
Ai tempi eroici i fondatori delle nostre aziende venivano accolti come profeti e riflettevano luce che illuminava chi era al loro fianco.
In quei giorni aridi invece la visita dell’ennesimo amministratore delegato mondiale non interessava quasi nessuno, tranne noi che dovevamo fare in modo che sembrasse tutto come ai vecchi tempi.
“Simone, hai visto, Kirill vuole venire in Italia fra tre mesi” era la frase che Simone Pascoli, il mio capo del personale, non avrebbe mai voluto sentire.
“Vuoi dire che devo organizzare le folle?”
“Si, ma è la prima volta che viene, dobbiamo scoprire cosa gli piace”. Per scoprirlo non impiegai tanto. Poche ore dopo arrivò un memorandum dal suo ufficio che chiedeva un trattamento da capo di stato, e non in senso figurato: tra le richieste c’era, infatti, d’incontrare il Presidente del Consiglio o, se fosse stato occupato, almeno quello della Repubblica. E si raccomandavano con pertinenza che in questi incontri il nostro uomo avesse sempre a portata di mano una lattina di Coca Zero.
Guardai Simone. “Non fare quella faccia sarcastica. Lattina o non lattina, ora arriva e dobbiamo muoverci”.
Con l’aiuto di un compagno di liceo che vivacchiava nel mondo romano convinsi un consigliere del nuovo Presidente del Consiglio che incontrare Kirill Tarper lo avrebbe fatto apparire in una luce più moderna.
Con Orietta, la direttrice del marketing, decidemmo per un evento in un teatro davanti a più di mille sviluppatori di software che in quegli anni erano una audience facile e entusiasta e che avrebbero dovuto soddisfare il bisogno di Kirill di essere adulato. Per essere sicuri di adularlo abbastanza, subito dopo mettemmo in agenda la tradizionale riunione con tutti i dipendenti.
Poi, per assicuragli imperitura gloria e ritagli di giornale da portare ai suoi figli, ci sarebbe stata un’intervista esclusiva con il giornalista di grido, che tutti sapevamo avere un legame con la Bergomi di cui io non avevo mai voluto approfondire la natura, geloso della possibile risposta.
Organizzammo anche un pranzo e una cena con gli amministratori delegati di due banche. Erano in cattive acque, e tutte e due speravano che incontrare Kirill li potesse aiutare a mascherare anche solo per qualche giorno i loro problemi con qualche comunicato stampa congiunto che ne lodasse le capacità innovative.
Tra l’atterraggio e la partenza del Falcon 2000 con cui si spostava per il mondo, Parigi-Ciampino, Ciampino-New York, c’erano esattamente dieci ore. Quattro delle quali, una enormità a pensarci, le avremmo passate muovendoci da un angolo all’altro di Roma in un lussuoso van metallizzato, in realtà un furgone con i sedile posteriori di pelle disposti a salottino a garanzia di mal d’auto per gli sfortunati girati nel senso contrario alla marcia. Era tutto calcolato, tutto contenuto in un raccoglitore denso di fogli che scandivano gli intervalli di tempo e descrivevano ogni minuto delle dieci ore.
Il diluvio che oscurava il cielo di Roma la mattina dell’arrivo non l’avevamo previsto.
Pioveva così forte che bastò la discesa della scaletta dell’aereo per consegnare al ventre accogliente del furgone un Kirill Tarper fradicio, incazzato e mal disposto. Non ci salutò, agitò la mano verso l’areo dove intravidi una ragazza bionda di fianco alla hostess. “Dove è la Coca Zero?” furono le sue prime parole. Gliela diedi, la giornata si annunciava in salita. Per fortuna la pioggia diminuì, il traffico romano fu clemente e arrivammo a Palazzo Chigi appena in tempo. Il cocktail di buche, frenate e accelerazioni che rende così speciale viaggiare per Roma aveva fatto diventare Kirill leggermente verdastro, ma sembrava resistere. Solo alla fine della riunione, dove aveva parlato per quasi un’ora con un Presidente del Consiglio molto ciarliero, riuscendo, glie ne va dato merito, a rimanere serio e a evitare ogni argomento che potesse sfociare in una richiesta di soldi, ci fece capire che aveva bisogno di una sosta e noi pronti dirottammo il valletto che ci accompagnava attraverso i corridoi verso il primo bagno. Mentre Kirill vomitava mi arrivò un messaggio da un collega francese.
“Burger King”, diceva soltanto. “?”, risposi. “Burger King”, ancora, fu la laconica replica. Non c’era tempo per chiamarlo, dovevo spiegare all’autista di avere un poco di pietà e comunque il ristorante per il pranzo era vicino. Ma “Burger King” mi ronzava nella testa.
A pranzo Kirill non sfiorò nemmeno il cibo ma fu impeccabile con i clienti, riusciva a mantenere la conversazione al giusto livello di superficialità per rendere ogni incontro soddisfacente e al tempo stesso inutile. Arrivati nel nostro ufficio fu affabile con tutti i dipendenti che avevamo schierato per l’occasione e, dopo un panegirico inconcludente sui valori aziendali, rispose con sicurezza fin eccessiva alle domande che Simone aveva prima vagliato e censurato.
Mentre Kirill parlava mandai un altro “?” al francese e mi girai verso Orietta Bergomi che era seduta di fianco a me. Le feci vedere i messaggi e le bisbigliai “Cosa vorrà dirci?”. Orietta, più seria del solito, cominciò a scrivere sul suo telefono. Ma Kirill aveva finito e dovevamo muoverci.
Arrivare al teatro fu complicato. A metà strada Kirill interruppe di scatto Orietta che gli stava raccontando i dettagli dell’evento con gli sviluppatori e ci gridò di fermarci. Doveva andare di nuovo in bagno. Eravamo su un viale fuori dal centro, verso il nuovo auditorium della musica dove avevamo organizzato l’evento. “Ho bisogno di un bagno, ora”, stava quasi urlando. C’era un benzinaio, uno dei pochi rimasti in città. Feci fermare il furgone. L’autista chiese, il benzinaio scosse la testa, il bagno era privato. Scesi io, insieme al mio uomo che ora tremava cercando di trattenersi. “Tutto quello che vuoi” dissi al benzinaio che girò la chiave della porta sul retro del suo chiosco. Non era un bel vedere, ma Kirill si accontentò, e il benzinaio si accontentò del mio orologio. Avrei dovuto trovare un modo creativo di farmelo rimborsare.
Arrivammo con venti minuti di ritardo, ora Kirill sembrava stare bene e Mario Cattivi, il nostro evangelista che aveva il compito di fare da tappabuchi nel caso fossimo stati in ritardo smise a malincuore di raccontare barzellette. Gli applausi di più di mille persone sembravano rinfrancare Kirill, che raccontò i soliti quattro concetti in modo meno noioso del solito. Nell’istante in cui lui scendeva dal palco, Orietta mi si avvicinò con un sacchetto di carta marrone, me lo diede e scappò ad accogliere il suo amico giornalista famoso.
Mentre accompagnavo Kirill verso il camerino per l’intervista, lui si piantò in mezzo al corridoio e mi guardò, come se mi vedesse per la prima volta.
“Dov’è il mio Whopper?”
“Aldo sono le quattro, dove è il mio Whopper?” insistette, di fronte al mio silenzio.
Io aprii il sacchetto; dentro ce n’era un altro, giallo e rosso. Burger King. Dentro il sacchetto giallo e rosso, un cartoccio. “Whopper”, c’era scritto, e la E di “Whopper” era fatta da tante strisce colorate. Kirill me lo strappò di mano e cominciò a prenderne a morsi il contenuto.
Eravamo salvi, ad un passo dal baratro. Per sadismo o per vergogna l’assistente di Kirill ci aveva omesso il dettaglio che la dieta di Kirill, Coca Zero a parte, fosse costituita da un particolare hamburger, di una specifica catena. Il Whopper; alle tre e mezza di ogni pomeriggio. Il francese mi aveva mandato quel messaggio solo per riderne insieme, convinto che io conoscessi quella mania.
Orietta, mentre Kirill si svuotava le viscere, era riuscita a chiamarlo e a farsi spiegare. Aveva unito i puntini, e ci aveva salvato. Non era più solo bellissima, aveva mostrato un carattere che non le avevo mai visto.
Il resto della giornata filò liscio, lo stomaco di Kirill era tornato in esercizio grazie al Whopper, il giornalista famoso commentò sottovoce in italiano il suo alito cattivo ma non lo scrisse.
Alle 10 di sera eravamo di nuovo a Ciampino; Kirill nell’ultimo tragitto si era lamentato della macchina e del traffico ma tutto il resto gli era piaciuto. Il risultato fu perfetto, non avrebbe mai più chiesto di venire a Roma ma avrebbe parlato bene di noi.
Ero radioso, anche se non capivo chi fosse la ragazza bionda che aveva riaccolto Kirill nell’aereo. Mi girai verso Orietta e la invitai a bere da qualche parte. Avrei davvero voluto sapere chi fosse quel giornalista per lei, ma non ci fu modo di scoprirlo. Invece scoprì che beveva come un omino della funivia, che adorava camminare nella notte romana cercando il prossimo locale ancora aperto e che aveva addosso un leggerissimo odore di inchiostro.
Finì con me troppo ubriaco anche per solo cercare di baciarla, ma non abbastanza da non capire di essermi innamorato.
grazie....
questo capitolo é spettacolare