Così mi barcamenavo. Bossani era il peggior capo che avrei potuto desiderare, non perché non fosse bravo, anzi era bravissimo, avevano fatto bene a scegliere lui, non aveva scrupoli e sotto la sua guida l’azienda stava generando più profitti che mai. Ma se gli amministratori delegati che l’avevano preceduto avevano molti difetti, Bossani ai miei occhi sembrava sommarli tutti. Di destra, sprezzante verso chi non aveva avuto successo come un teorico dell’eugenetica, e al tempo stesso ingordo e amante del lusso, lusso che ostentava mostrando a tutti ciò che comprava, case, mobili, quadri, sculture, vigne, vini, viaggi; esponeva i suoi trofei pensando a ragione che stimolassero i suoi a cercare di emularlo. Modello di perfetto paterfamilias in pubblico, in privato sconveniente e volgare.
Io resistevo, ma non era facile. In quel periodo anche Orietta mi sfuggiva, sembrava presa da problemi che non avevano a che fare con il lavoro e non me ne voleva parlare, in effetti cercava di incrociarmi il meno possibile. Nemmeno la storia di Scarpieri, che le avevo raccontato pavoneggiandomi l’unica volta in cui ero riuscito a trovarmi da solo con lei per un pranzo l’aveva fatta sorridere. Il mio innamoramento non sembrava per nulla ricambiato.
Insomma, era dura. Aiutava la consapevolezza di essere testimoni, più o meno unici, di accadimenti strani che non verranno mai raccontati sui giornali, perlomeno non nel modo in cui sono avvenuti davvero.
Quando succedeva, anche la mia dissonanza riusciva a chiudere occhi e orecchie. In fondo, queste sono le uniche cose che avrò voglia di raccontare ai miei figli. Le uniche cose che vale la pena ricordare.
7 – Velocità
Le tre di notte di una notte qualunque nel sotterraneo di una grande palazzo nel centro di Milano. Iconico, il palazzo. Molto meno il sotterraneo, due rampe di scale per trovarsi davanti a una porta tagliafuoco che immette in un breve dedalo di cubicoli e piccoli corridoi. Umidità, luce al neon. Alla fine dei corridoi una stanza con dieci tavoli contrapposti a due a due, su ogni tavolo un monitor e davanti a quattro dei monitor io e tre miei colleghi.
Siamo una squadra operativa, il nostro compito è che in ogni momento del giorno e della notte il sito web del nostro cliente, padrone del grande palazzo e di innumerevoli altri in tutto il mondo, risponda coerentemente agli stimoli di chi vuole comprare, vendere o semplicemente sognare una casa. Guardiamo i nostri monitor per controllare che tra il momento in cui il sognatore clicca e quello in cui il sito gli risponde passi meno tempo possibile. I sognatori sono suscettibili e il sito deve blandirli se vuole renderli felici, In fondo è la loro felicità a produrre i profitti del nostro cliente. Due secondi di attesa tra un tocco del dito e l’apparire di una foto possono già essere un problema. Se succede due volte di fila il sognatore si spazientisce e se ne va.
Se il sito rallenta, insomma, noi dobbiamo intervenire. Si accende un indicatore rosso sui nostri monitor e noi, ancora prima di capire cosa sta succedendo e perché, attiviamo nuovi server, duplichiamo fasci di connessioni, fermiamo elaborazioni batch, apriamo canali addizionali, ci appoggiamo a Francoforte o a Dublino, avvisiamo il centro di supporto clienti perché si prepari a ricevere lamentele. Senza muoverci da qui, usando solo le nostre tastiere, ma tutto deve essere fatto in fretta. Per questo siamo qui in quattro ad ogni ora del giorno e della notte.
Il contratto con il cliente parla chiaro in termini di penali: la differenza tra uno e cinque minuti di rallentamento può costarci milioni; più di cinque minuti significherebbe la catastrofe.
Io non ho più un ruolo tecnico, da tanti anni, e non dovrei fare parte delle squadre che si alternano in questo buco ma ogni tanto mi ci inserisco. La cosa ha diversi vantaggi, anche se alcuni sono discutibili. Mantieni l’aura di tecnico che ti fa sentire adorato dai tuoi, perché loro dividono il mondo in chi conosce il proprio lavoro e e chi sfrutta quelli che lo conoscono; le aggiungi, con un poco di demagogia, quella del capo attento alle condizioni in cui si lavora, anche se poi non fai niente per cambiarle. E poi conosci meglio le persone. Capisci quelli che funzionano e quelli che non ce la faranno mai. Quelli che un giorno saranno al tuo posto e quelli che verranno prima o poi mandati via.
Nei turni di notte che l’immaginario trasforma, per renderli più sopportabili, in occasioni di trasgressione alzando di molto le soglie del politicamente ed aziendalmente corretto, vedi nascere o finire un amore o magari solo intuisci che al mattino quei due andranno a dormire insieme, e aggiungi un altro piccolo frammento di informazione a quello che sai dei tuoi.
Quella notte non fummo fortunati. Maria, che ha venticinque anni ma ascolta solo gli Smiths, fu la prima ad accorgersene. “Il sito non risponde”, sussurrò interrompendosi nel mezzo di una tirata sul tradimento di Morrissey. Strizzò gli occhi fissando il monitor. Tutti la guardavamo. “È strano, sembra che la connessione sia intermittente. Ogni cinque secondi si ferma per due.” Dario, il nuovo arrivato, cominciò a tappettare sulla sua tastiera. “Siamo appena sotto la soglia per le penali. Ma qualcosa non sta funzionando, è come se qualcuno stesse leggendo dei dati ma a piccoli pezzi, per non farsi notare.”
Ada era la supervisor del gruppo e aveva lavorato con me per qualche anno, avevamo anche cercato di uscire insieme qualche volta prima che lei decidesse che non ero il suo tipo. “Guardate qui”, disse. In un secondo fummo alle sue spalle. Il monitor mostrava una barra gialla che oscillava violentemente. “Stanno copiando tutto il database dei clienti con transazioni, nomi, cognomi, numeri di conto, richieste e preferenze.”
“Tiriamo giù il sito” dissi io. Ada mi guardò storto: “ormai è tardi, servirebbe solo a peggiorare le cose e ad attirare l’attenzione. A quest’ora nessuno si sarà accorto della lentezza. Facciamo finta di niente”. “Chi sta copiando i dati?” chiesi. Giorgio iniziò ad imprecare e gli altri andarono a guardare il suo schermo. “Non ci crederai” disse Ada, “ma è l’ufficio di Londra del cliente. Siamo in pratica noi stessi.”
Non era una buona notizia. Quei dati non dovevano muoversi da dove erano. Non erano del cliente, erano di chi li aveva inseriti. Copiarli era illegale, e lasciarli copiare senza dire nulla era peggio che illegale, era immorale, anche a farlo era chi ci pagava. Passammo le due ore successive a scrivere un documento che spiegava cosa era successo, con immagini dei video, indirizzi dei computer che avevano effettuato la copia, una descrizione puntigliosa, minuto per minuto, di quello che avevamo visto. La salvai su una mia partizione privata e chiesi agli altri di dimenticarsi della cosa per qualche ora. Alle otto arrivarono i quattro colleghi del turno successivo, li salutammo senza dirgli nulla e uscimmo.
Ottavio Bossani era il mio capo e, per quanto temessi il peggio, dovevo passare da lui. Lo intercettai nei garage dell’ufficio prima delle nove. Non c’era posto migliore per parlargli. “Dimentica quello che hai visto, Aldo” mi disse, dopo che in due minuti gli avevo raccontato quello che era successo, “stanno cercando di fare un accordo con una azienda americana e gli devono fare vedere la qualità dei dati che hanno e non solo, devono lasciarglieli usare per qualche mese.”
“Ma è illegale, ora quei dati possono essere usati per rubare o per ricattare, non è solo un problema di marketing!”
“Dimentica”, ripeté, “questi sono dei coglioni e fanno le cose come dei dilettanti, ma per fortuna c’eri tu quando è successo. Se fanno l’accordo con gli americani anche noi raddoppieremo il fatturato. E con il tuo documento in mano siamo sicuri che non cercheranno di sostituirci con qualcun altro.”
“Quindi noi ricattiamo loro che a loro volta possono ricattare decine di migliaia dei loro clienti? Ottavio, io questo non posso farlo, è un crimine penale. E quei tre ragazzi non possono finirci di mezzo. Io non ci sto.”
Bossani mi guardò stupito, poi mi sorprese: “Hai ragione, chiama il nostro legale e andate insieme alla polizia postale. Vediamo cosa succede.”
Successe un finimondo; era il primo caso in Europa in cui una azienda di qualche fama era stata presa con le mani del sacco a fare porcherie con i dati, ad usarli per scopi non consentiti e non dichiarati. Tutti sapevano che succedeva, ma nessuno era mai stato condannato. In quindici giorni, il tempo che le carte dell’indagine impiegarono ad essere passate a un giornalista, diventammo i paladini della trasparenza e della integrità; e Bossani fu chiamato a presiedere una commissione europea creata apposta, con tanto di titolo e foto sul “Financial Times”. Centinaia di aziende, terrorizzate, vennero a chiederci di aiutarle a mettersi in regola e la filiale italiana per due anni fu la migliore del mondo; io ebbi la mia piccola promozione mentre Ada, Dario e Maria ne ebbero una molto vistosa, il mio modo di ringraziarli.
Il nostro cliente di quella notte non fallì, però. I suoi manager furono cacciati, come in un sacrificio rituale per esorcizzare i giornalisti e i politici che gli gridavano contro, ma tutto il resto venne incorporato, a prezzo di saldo, all’azienda americana a cui Ottavio mi aveva accennato nella nostra conversazione nel garage.
A noi arrivò dagli americani un contratto incredibilmente generoso per gestire l’integrazione. Il nostro premio per il tradimento.