Era sempre più difficile non fare compromessi. Alla purezza avevo già rinunciato da molto, ma speravo di riuscire a rimanere diverso. A non diventare quello che faceva agli altri quello che non avrebbe voluto fosse fatto a lui. Ad avere buone ragioni per continuare a giustificarmi dicendo che senza di me l’azienda sarebbe stata peggio, molto peggio. A inventarmi piccole correzioni che mi permettessero di dire che stavo cambiando le cose da dentro.
Ci provavo, ma i cambiamenti che riuscivo a fare erano sempre più impercettibili. Una promozione in più. Un licenziamento in meno. Una piccola battaglia vinta per obbligare i padri a prendersi cura dei propri figli appena nati, almeno per qualche giorno. E ognuna di queste correzioni mi costava altre bugie, altri sotterfugi.
A fin di bene, mi dicevo, ma la realtà era che più il tempo passava più mi uniformavo, diventavo come gli altri.
8 – Board Room
La stanza era immersa in una luce complessa creata dalla interferenza dei raggi del sole, ormai basso sopra la grande navata della Stazione Centrale, con i raggi proiettati dalla doppia fila di lampade al neon poste ad ovale, una concentrica all’altra. Esattamente sotto le lampade, con la stessa forma ovale, stava l’enorme tavolo di mogano chiaro, sciccosamente opaco e arricchito da un motivo geometrico di intarsi di teak raffiguranti intricate spirali che sembravano rappresentare l’unica concessione al non contemporaneo.
Lungo le due pareti lunghe, a complicare quella luminosità a suo modo solenne, tre grandi televisori per lato, sistemati a distanza regolare l’uno dall’altro, mostravano tutti la stessa foto con il Duomo di Milano e il logo aziendale di fianco, e tutti erano afflitti dallo stesso leggero sfarfallamento dell’immagine.
Sul lato corto, opposto alla grande finestra affacciata sulla città, un tavolo su cui erano allineati una dozzina di tazze e piattini scintillanti di bianco e quattro thermos d’alluminio con manici e cappucci di bachelite nera.
Di fianco al tavolo, la porta da cui eravamo appena entrati e, nella cornice della porta, in piedi, Arrigo, il segretario di Ottavio Bossani, il capo del gruppo di manager pronti a riunirsi. Era una nuova tendenza quella di avere segretari maschi, e noi non ci eravamo fatti sfuggire l’opportunità di cavalcarla, come se fosse potuta bastare a trasformarci in un’azienda meno convenzionale.
Nella stanza, sulle sedie di alluminio satinato e pelle nera disposte intorno all’ovale di mogano, disegnate da Osvaldo Borsani e che Ottavio aveva voluto acquistare solo in onore all’assonanza dei loro nomi, eravamo seduti in dodici. Dodici completi monopetto tra il grigio chiaro e il fumo di Londra. Le camicie erano divise equamente tra sei azzurri Oxford e sei bianchi, colletti rigorosamente italiani. Dodici scarpe nere, stringate, inglesi, cinque con la punta traforata e una linea dritta come decoro, quattro con due ali di rondine in punta, tre senza nessun fregio a disturbare lo scintillio della pelle ben lucidata.
Solo le cravatte ci distinguevano, grazie al genio di Hermes a cui tutti eravamo ricorsi per differenziarci ma non troppo: le lumachine sul prato verde, i piccoli ombrelli su un cielo di pioggia, le nuvolette bianche su sfondo blu e le nuvolette grigie su sfondo rosso, cuccioli d’elefante con eucalipti e giovani coccodrilli nelle paludi. Una gara continua a dimostrare il nostro vitale anticonformismo.
Arrigo, che quel giorno mostrava al mondo una nuova fantasia di funghetti nel bosco, uscì dalla stanza chiudendo la porta, le cravatte ebbero un sussulto e i dodici monopetti si animarono.
Il leadership team prese il volo.
“Siamo nella merda” fu l’esordio di Bossani. “Cazzo, abbiamo perso tre gare nell’ultimo mese e a questo punto il budget possiamo anche mettercelo in quel posto. Tre gare perse e voi siete stati a guardare. Hoist mi ha chiamato e mi ha fatto capire che se non recuperiamo subito siamo fottuti.”
Hoist era il responsabile Europeo, che Bossani quando era in buona definiva un coglione, ma che nonostante il disprezzo restava comunque il suo capo. Un tedesco segaligno e perlopiù silenzioso, con un inglese perfetto che metteva a dura prova l’ego di Bossani, impossibilitato ad affrancarsi da un eloquio che ricordava Alberto Sordi. E Hoist non era quella che si dice una brava persona, comandava con il terrore e aveva licenziato sui due piedi più di un country manager per non avere raggiunto il budget per due trimestri consecutivi.
Bossani era davvero preoccupato. Continuò: “Prima che Hoist fotta me, saltate voi. Quindi se non volete trovarvi per strada cerchiamo di evitarlo. E per evitarlo c’è un solo modo. Ognuno di voi deve portare dieci milioni di profitti in più in questo trimestre. Più ricavi, meno costi, non mi interessa come ma voglio dieci milioni da ognuno di voi. Sentiamo le idee”.
Il sole aveva lasciato la board room, era rimasta solo la luce degli ovali di neon. I televisori non sfarfallavano più, forse si erano scaldati. Nell’enorme slargo davanti alla stazione potevo vedere centinaia di persone che camminavano frenetiche in ogni direzione, indifferenti a quello che stava succedendo nella stanza dove invece l’immobilità era assoluta. Eravamo tutti nel panico, nessuno si era preparato a questo; i miei pensieri sbandavano, oscillavano tra diverse strategie senza che nessuna prevalesse. Prendere tempo, inventare una scusa, promettere qualcosa che sapevo non si sarebbe realizzato. Per trenta secondi fui catapultato in quarta ginnasio di fronte alla prima interrogazione di greco non programmata.
Poi il monopetto alla destra di Bossani si schiarì la voce. Carlo Mentano: nessuno si stupì che fosse lui a parlare, lo chiamavamo “il democristiano” per la sua capacità di non contrastare mai nessuno frontalmente, comportarsi come il primo della classe e pugnalare alle spalle.
“Posso parlare con il nostro concorrente principale, quelli che hanno vinto due delle tre gare che abbiamo perso. Loro devono comunque trovare le persone per quei progetti e io gli posso offrire le mie. Capiranno che siamo disperati ma non si negheranno, sanno che prima o poi avranno bisogno di noi. Solo, ce lo faranno pagare con gli interessi, chiedendoci un favore ancora più grande tra qualche mese. Il trucco alla fine ci costerà almeno due milioni, ma in questo trimestre sembrerà una cosa positiva.”
Bossani si accese.
“Bravo Carlo, quando c’è un casino da risolvere hai sempre una buona idea. Il trimestre prossimo poi vedremo che cazzo fare. Altre idee?” Guardava di fronte a sé, verso il mio lato del tavolo.
Il secondo monopetto alla mia sinistra era Stefano Arcozzi, non l’avevo mai conosciuto bene ma per Simone era uno dei pochi manager su cui non girassero storie oscure. Aveva il volto torvo e tirato, si capiva che qualcosa non andava. Era chiaramente a disagio, ma trovò lo spirito per parlare.
“Io non credo sia l’approccio giusto. Non possiamo inventarci così sui due piedi una soluzione, c’è bisogno di più tempo e comunque dieci milioni sono troppi, non c’è un modo per me di f…”
La voce di Bossani salì di tre ottave.
“Arcozzi, che cazzo dici. Non ti ho chiesto se si può fare o no. Ti ho ordinato di farlo. Mi hai sfinito con i tuoi dubbi, avrei dovuto cacciarti già un anno fa quando ti sei rifiutato di anticipare una commessa per paura di essere rimproverato dagli auditor. Sei fuori, non posso fidarmi di te, fuori dai coglioni.”
Mentre Arcozzi si alzava in silenzio, Ottavio si girò verso di me: “Aldo, da ora la business unit di Stefano riporta a te.” Arcozzi uscì, la tensione sul suo viso si era trasformata in qualcosa che sembrava un sorriso, e Ottavio continuò. “Hai qualche idea?”
Non ne avevo, ma non potevo permettermi di non averne. Quindi inventai. Sulla pelle degli altri.
“Ho bisogno di un poco di tempo per i dettagli. Ma ho sentito che il gruppo di Arcozzi ha un sacco di persone ferme. Sono in mille in tutto, se ipotizziamo che duecento siano ferme, più altre cento, centoventi di cui sicuramente possiamo fare a meno unendo le due business unit, sono trecentoventi persone. A centomila euro in media l’anno, calcolando stipendi, bonus, tasse, contributi eccetera, risparmiamo trentadue milioni l’anno, otto in questo trimestre. Non sono i dieci che hai chiesto, ma ci andiamo vicini. Certo, mandarne via trecento e passa di colpo ci costerà qualcosa ma sono oneri straordinari, e poi a Hoist piace sempre quando facciamo queste operazioni.”
Scese il silenzio, e fuori era diventato buio. Snocciolare numeri così faceva sempre impressione, gli altri dieci monopetti stavano rifacendo mentalmente i miei conti; trecentoventi licenziamenti erano sempre una notizia, al di là del piacere sadico di Hoist.
Ottavio non stava contando, mi conosceva e sapeva che con le moltiplicazioni ero bravo. Stava pesando mentalmente se il rischio di essere cacciato valesse il sacrificio di doversi astenere per qualche mese dall’andare per convegni a magnificare il suo personale contributo all’occupazione in Italia. Pensava alle sue ville. Alla sua scuderia di cavalli da salto nel Monferrato.
“Va bene Aldo, ma inventiamoci internamente che è un’operazione fatta per crescere. E gettiamo tutta la merda su Arcozzi, facciamo capire che aveva fatto qualcosa di male, stando nel vago. Quando si è in queste situazioni si deve fare così: ranza, ranza, ranza!”
Il grido di guerra di Bossani fu l’ultima cosa che sentì davvero, il resto della riunione mi scivolò addosso. Avevo salvato i miei, avevo salvato me stesso, dovevo cacciare trecentoventi persone solo perché non erano mie. Uscimmo dalla sala riunioni che era quasi notte. Mandai un messaggio a Simone, lo avvisavo che avremmo avuto da fare.
Sapevo che avrei dovuto sentirmi molto peggio di così.