“Il servo incompetente, chiunque ne sia il padrone, gli è sempre ostile”
Charles Dickens
0 - Il piatto in cui mangiamo
Sono Aldo Pastore e lavoro in quelle grandi aziende che tutti chiamano multinazionali. Le chiamano così perché sono fatte da tante entità, una per nazione, ognuna un clone dell’altra, chiamate filiali. Queste entità sono distribuite in piccole costellazioni, ognuna con al centro un oggetto strano, chiamato quartier generale. E ogni costellazione di filiali, con il suo quartier generale al centro, ruota attorno a un punto mitico, il centro della galassia, che alcuni chiamano, con disprezzo o con timore, la sede centrale.
A pensarci, non è diverso da un esercito. Le pattuglie i plotoni le squadre le brigate le divisioni e il Ministero della Guerra in via Venti Settembre. Ma pensatelo come un esercito sparso per tutto il mondo, un grafo a ragnatela che copre tutta la cartina.
Fino a qui, nulla di così strano. Ma io lavoro in quelle multinazionali che producono promesse. Non produciamo lunghe barre di alluminio, per dire; non cuociamo conserve di pomodoro né mettiamo zucchero e gas in bottiglia.
Le nostre promesse sono create da ragazze e ragazzi in gamba e costano care. Quindi più promesse le nostre persone producono in un giorno più le nostre aziende guadagnano più i loro capi e capetti, io per esempio, diventano ricchi. E quando sono al lavoro su una promessa per un cliente, i nostri ragazzi diventano proprietà del cliente. Sono schiavi. Che devono lavorare più possibile per rendere ricchi i loro padroncini. E i padroncini, quelli come me, devono fare lo stesso per rendere ricchissimi i padroni.
Se vi ricorda qualcosa di brutto, avete ragione. Ma aspettate a scandalizzarvi.
In queste aziende succedono le stesse cose che succedono ovunque. Si litiga, ci si innamora, si vince e si perde e anche si ride, a volte. Ma l’etica del non avere etica fa accadere storie che a leggerle potrebbero sembrarvi impossibili.
Io in queste aziende ci sono entrato per caso, senza davvero volerlo e senza sapere quello che avrei trovato, che poi è come tendo ad entrare in tutto quello che faccio, in modo cieco o almeno molto miope. Mi succede nel lavoro e nelle svolte sentimentali, nei nuovi sport, nell’educazione di mio figlio. A seconda dell’umore la chiamo disattenzione, irresolutezza, serendipity. Da qualche anno una psicologa è diventata famosa chiamandola forma mentale dinamica, e qualcun altro la chiama la rivincita del generalista. Alla fine, si tratta solo di riconoscere che gli eventi ci succedono, e cercare di sfangarla.
Ma appena entrato nella mia multinazionale, appena diventato una sua proprietà, ho capito che sfangarla sarebbe stato complicato, che sarei rimasto per sempre in conflitto morale. Il mio comunismo di gioventù si era slavato ma alcuni princìpi erano rimasti e si erano incrostati in me senza possibilità di rimuoverli. Potevo lasciare perdere e cercare un’altra strada, o combattere dall’interno in modo da potermi giustificare con me stesso e addormentarmi quasi tranquillo. L’idea di cercare un’alternativa era attraente ma richiedeva uno spunto di energia e determinazione che non avevo. Combattere dall’interno, essere la mosca del capitale, sembrava richiedere meno fatica. La scelta era fatta.
Sono arrivato al punto finale di questa lotta continua e voglio raccontarla partendo dall’inizio, da quando feci il salto di specie.
1 – Saldi
Noi eravamo piccoli. All’inizio eravamo proprio piccoli, abbiamo impiegato cinque anni per diventare dieci ma poi siamo sbocciati e siamo diventati in fretta cento, e dopo poco duecento. Non eravamo più piccoli.
Simone Pascoli era arrivato fresco da un master in organizzazione aziendale all’inizio di quella crescita, il nostro dodicesimo impiegato, e dal suo arrivo mi sembrava di avere lavorato solo con lui. Lui trovava le persone, io capivo se erano brave abbastanza. Lui le convinceva a venire da noi, io le accoglievo e decidevo cosa avrebbero fatto.
Eravamo diventate le persone di fiducia di Michele Cacciari, il fondatore e unico socio della nostra azienda. Michele l’aveva fondata a cinquant’anni, dopo una lunga e noiosa carriera in STET, un carrozzone parastatale. Poteva scegliere tra l’abbandonare la moglie o cambiare azienda, aveva scelto la moglie e si era riscoperto creativo.
Aveva trovato ragazzi come me fuori dall’università e ci aveva messo al lavoro. Noi ci facevamo sfruttare con semplicità, senza fare storie, e fino quando eravamo rimasti in pochi era stato divertente. Quando era iniziata la crescita erano arrivati i guai, le gerarchie, le gelosie professionali. Dei ragazzi degli inizi eravamo rimasti solo io e Simone; gli altri si erano dispersi nella diaspora delle cento aziende di consulenza milanesi, chi per una promozione mancata, chi per cinque milioni di lire in più. Alcuni per essersi innamorati di un collega, e d’altronde di chi si sarebbero potuti innamorare visto che passavamo la buona parte delle nostre giornate insieme?
Michele aveva una sua logica nel gestire le persone, ed era quella di evitare ogni scelta in superficie ragionevole. Mandava gli introversi a parlare con i clienti, assegnava ai disordinati la responsabilità dei progetti, chiedeva ai noiosi di organizzare le festicciole di Natale. Ogni tanto ci buttava lì la parola “contrarian”, con noncuranza, ma si vedeva che ci credeva. E funzionava abbastanza bene, a giudicare da quanti eravamo diventati.
Con questa logica io ero stato promosso a fare il responsabile tecnico senza avere una formazione informatica o economica e soprattutto senza alcun appetito di comandare. E Simone, al suo primo lavoro vero, il capo delle risorse umane.
Un’area in cui Michele non aveva mai lasciato che nessuno mettesse mano era quella dei soldi. Solo lui sapeva come andasse l’azienda. Noi potevamo intuirlo dalla generosità altalenante dei premi di fine anno, ma nessuno avrebbe potuto dirlo con precisione. Credevamo di conoscere bene, invece, il disprezzo di Michele per i nostri concorrenti multinazionali, ed eravamo abituati alle sue lunghe tirate sulla loro mancanza di etica, sulla presunta evasione fiscale e soprattutto sull’ingordigia. Ogni tanto assumevamo dei ragazzi da una di quelle aziende e li accoglievamo con un fuoco di fila di domande che sfioravano la richiesta di abiura. Le storie che i poveretti raccontavano sui loro lavori passati sembravano identiche a quelle che avremmo potuto raccontare noi, ma Michele, implacabile, ci intimava di diffidare. Le multinazionali erano il male assoluto. I pochi nostri colleghi che facevano il passaggio contrario, lasciandoci per una di queste aziende, venivano cancellati dalla nostra storia aziendale. Se avessimo avuto delle loro statue, le avremmo abbattute.
Quando tutto d’improvviso cambiò, la sorpresa fu enorme. Simone arrivò nella mia stanza come un ossesso. Si chiuse la porta alle spalle. “Cacciari ci ha venduti”. Era uno scherzo, pensai. Lui continuò, mi conosceva bene: “Non è uno scherzo. Ci ha venduti. Per quaranta miliardi. A quelli che ha sempre odiato”.
Michele era introvabile. Ricostruimmo la cosa con due altri colleghi del gruppo originario. Era vero, la notizia era sulle agenzie di stampa. Facemmo due conti, quaranta miliardi ci sembravano pochi ma non conoscevamo la nostra situazione finanziaria, potevamo solo stimarla, e Michele restava disperso. Non si fece trovare per tutto il giorno, Simone e io dovemmo chiamare tutti in ufficio per ufficializzare una cessione di cui non conoscevamo né i modi né i motivi.
Ricomparve il giorno dopo, ce lo aspettavamo sconvolto e lo trovammo sereno. Non si giustificò, non ci diede un perché. Ci disse soltanto che io, Simone e altri due manager eravamo una parte essenziale dell’accordo e che saremmo dovuti per forza entrare nella multinazionale; per aiutarci ad accettare c’erano dei soldi se fossimo rimasti, soldi in più ogni anno per due anni. Non tantissimi, con gli occhi di oggi, ma comunque abbastanza per convincerci. E soldi a parte eravamo giovani e pensavamo di poter cambiare tutto, anche le multinazionali, e non avremmo mai lasciati soli tutti quelli che avevamo appena finito di assumere.
Il travaglio, la transizione, durarono otto settimane. In soli due mesi, Michele sparì e il suo posto venne preso da due Venusiani, come chiamavamo i capi della multinazionale. I giovani colleghi erano uguali a noi, ma i capi erano completamente diversi. Vestiti diversi, parole diverse, riunioni diverse e soprattutto la certezza inattaccabile che il loro modo di fare le cose, ogni cosa, fosse meglio del nostro. Ci chiedevano come gestissimo i progetti, ridacchiavano alle nostre risposte e ci suggerivano corsi interni a cui iscriverci. Alle prime riunioni per discutere di come avevamo organizzato i processi di approvazione delle vendite scoppiò un putiferio perché si resero conto che ogni venditore aveva una autonomia nel decidere gli sconti dieci volte maggiore di quella che loro concepivano. Quando gli spiegammo come decidevamo, ogni anno, che persone promuovere e che aumenti dare ci chiesero se fossimo un kibbutz. Simone su questo si intestardì, imbastì discussioni che sembravano comizi terzinternazionalisti, minacciò di creare una rappresentanza sindacale e venne pagato per andarsene dopo pochi mesi
L’anno che seguì fu difficilissimo, Michele aveva ragione, i nostri nuovi padroni erano davvero nefasti. Arrivai stremato alla pentola d’oro, il bonus di fine anno. Stavo pensando a cosa fare della mia vita quando mi chiamò Giorgio Fantoni che era il capo della filiale italiana: la persona che ci aveva comprato. L’avevo visto solo un paio di volte, sempre in mezzo a molti altri. Io lavoravo per un suo Venusiano e non avevo avuto rapporti diretti con lui.
Il suo ufficio era una fantasia sul tema del megadirettore galattico. Ma quello che mi voleva dire non era in sintonia con lo sfarzo. Avevano scoperto, e gli era servito un anno, che quello che avevano comprato per quaranta miliardi pensando fosse una occasione ne valeva forse quattro, pagati i debiti che Michele aveva lasciato e di cui nessuno si era accorto. Insomma, erano stati truffati e ora non gli restava che fare buon viso a cattiva sorte, anche perché Cacciari aveva venduto tutto ciò che aveva qui in Italia ed era a Barbados a imparare tardivamente il surf.
Fantoni mi chiese se volessi prendermi la responsabilità di tenere in vita il nostro gruppo, quello che restava dell’azienda che avevano comprato. Era una promozione, ma avvolta nella carta moschicida. Se avessi detto di no, mi disse, il gruppo sarebbe stato smantellato perché nessun altro manager Venusiano voleva rimanere associato a una operazione così fallimentare.
Ci pensai una notte e un giorno. Scrissi una lunga lista di condizioni, tra cui quella di riavere Simone con me, ma non mi sembrava ancora abbastanza. Poi la seconda notte sognai Michele su una tavola da surf, e decisi che avrei accettato. Se li aveva fregati lui, sarei riuscito a farlo anche io. Magari non per i soldi ma per l’impagabile sensazione di avere aggiustato qualcosa di rotto.
Insomma l’inizio era stato difficile ma c’era già stata quella presa di coscienza, o forse la rivendicazione, di essere un piccolo organismo arrabbiato entrato in un sistema più grande. Che si nutre del sistema ma che cerca al tempo stesso di cambiarlo. E che non deve farsi scoprire.
Mentre passavano gli anni e cominciavo a fare carriera scoprivo che nel salto dal piccolo al grande si possono imparare molte cose. Soprattutto se si tengono occhi e orecchie aperti, e se si hanno dei maestri. Certo non le virtù, quasi mai, ma ci sono tantissimi vizi interessanti da apprendere, se ci si è portati. Non solo i vizi piccoli come slealtà e furbizia, che conoscevo già piuttosto bene, ma anche l’arroganza, l’onnipotenza, l’ingordigia, l’attitudine al tradimento. Ero a contatto con persone incredibilmente intelligenti che non riuscivo ad ammirare perché tutte erano state attaccate da uno o da molti di questi vizi e ne risultavano corrotte.
Quasi sempre non se ne accorgevano nemmeno, è un dono di pochi rendersi conto davvero dei propri difetti, e d’altro canto il mondo in cui vivevano o in cui ambivano a vivere, nel caso di chi tanta carriera non l’aveva ancora fatta, gli restituiva un’immagine fatta esattamente degli stessi vizi. Ed è difficile rendersi conto di essere stronzi se nessuno te lo dice mai.
Poi, non sempre e non tutti finivano bene.
2 – Creosote
(a Terry Jones)
“Non comprare il ‘Corriere’, ce lo danno poi in aereo”. Il mio era un commento incidentale, non mi aspettavo nemmeno una risposta. “Tanto va in nota spese” mi rispose, senza il minimo segno di complicità; non c’era una strizzata d’occhio nel suo tono, era piatto come quello di chi ripete una ovvietà.
Era la prima volta che incontravo la bulimia mentale che poi ho imparato a conoscere come uno dei motori che alimentano e organizzano il mio mondo.
Lui era Giorgio Fantoni, il capo della filiale italiana. Due anni dopo che avevo accettato la sua proposta di portare avanti quello che era rimasto della mia vecchia azienda dopo l’acquisizione, aveva deciso che gli piacevo e mi aveva fatto diventare un suo collaboratore diretto. Non avevo troppe responsabilità, lavoravo nella sua ombra, era la posizione perfetta per iniziare la scalata al potere. Di me gli piacevano la flessibilità e l’incapacità di dire di no. Tutto si poteva comprimere per lasciare spazio a un’altra cosa da fare, un altro comunicato stampa, un articolo da scrivere a suo nome, un’analisi di mercato da inventare e gettare in bocca alla curiosità occhiuta del quartier general europeo.
Io non sapevo dove volevo arrivare, ma di certo non mi lamentavo dei progressi che facevo. Ero in uno stato di piacevole abulia: lavoravo praticamente sempre, mi dicevano “Bravo!” e le lodi anestetizzavano la sensazione di dolore che la mancanza di una vita reale mi causava.
Ma la scoperta di quell’abuso, il costo di un quotidiano inutilmente messo a carico dell’azienda, aprì un capitolo nuovo nella nostra relazione e mi scosse dal torpore.
Cominciai ad osservarlo attentamente. Quando in un viaggio di lavoro andavamo in albergo lui invariabilmente trovava un difetto nella camera e protestava. La doccia gocciolava, il frigobar era rumoroso, la tenda non si chiudeva completamente, la televisione non prendeva la Svizzera italiana, aveva visto una formica nel bagno. Quando gli dissi, cercando di fare lo spiritoso, che era davvero sfortunato, mi spiegò serio che così otteneva sempre una stanza migliore della precedente, una vista migliore, un tavolino in più, la vasca da bagno e la doccia insieme.
Come la mente di un bulimico non riesce a frenare la pulsione ad aprire il frigorifero e mangiare qualunque cosa ci sia a disposizione, noccioline o polli arrosto, la sua mente era condizionata dal concetto di accumulo. Accumulare potere, posizioni, titoli e cariche, ricchezza, case, automobili, barche, aeroplani, prestigio, fotografie in copertina, citazioni, ingressi in circoli molto esclusivi. Accumulare qualunque cosa, senza pensare al come né tantomeno alle conseguenze. I bulimici poi vomitano, per poter ricominciare, mentre per questa sindrome non c’è nemmeno quella valvola di sfogo, si entra in ciclo di accumulo continuo e apparentemente infinito.
Anche la relazione con me divenne sempre più asservita al suo accrescimento personale. Mi usava, usava la mia ambizione per difendere la propria posizione; io dovevo aiutare a giustificarne l’esistenza ai capi mondiali, e in cambio lui continuava a farmi crescere. Aveva costruito un piccolo archivio di sciocchezze commesse dal suo capo e lo usava con disciplina, come minaccia per non venire ostacolato nelle sue continue richieste economiche.
Poi iniziò a usare il prestigio dell’azienda per compiere il passo successivo, per salire di livello. Si era reso conto di essere arrivato al limite dell’ascesa interna, ogni volta che gli era stata proposta una promozione che avrebbe implicato un trasferimento in un altro continente aveva rifiutato, non perché avesse una famiglia a cui badare, non aveva nessuno, ma perché sapeva che in un nuovo ruolo, con nuovi capi e collaboratori, la bolla di impunità che aveva creato intorno a sé sarebbe scoppiata e sarebbe stato svelato per quello che era diventato: un uomo avido in una posizione al di sopra delle sue capacità.
Il piano consisteva nell’usare l’immagine che aveva creato di sé per saltare da un ascensore all’altro, lasciare la multinazionale ed entrare dalla porta principale in un’azienda di stato, diventare un boiardo, entrare nei circoli importanti, dove si presuppone che le competenze contino molto meno delle relazioni. Poi chissà, la politica, anche se non gli avevo mai sentito elaborare una linea o un pensiero ben definito, al di là di un generico ripetere concetti molto vaghi e generici di legge e ordine. Immigrazione uguale a delinquenza, chi ha voglia di lavorare un lavoro lo trova, paghiamo troppe tasse, la famiglia, la chiesa, il club.
Il piano si infranse sulla sua cupidigia. Ebbe davvero una occasione, una possibilità; lo vidi con i miei occhi prendere note su un foglietto mentre al telefono parlava riverente con qualcuno, volto e voce trasfigurati dall’emozione. E dieci minuti dopo mi diceva sconsolato che con il ruolo pubblico che gli offrivano avrebbe guadagnato meno, che avrebbe dovuto chiedere di lasciargli fare le due cose (e incassare i due stipendi) insieme. “Sei pazzo?” gli dissi, “come puoi pensare che te lo lascino fare? Non ha senso pagarti per fare un'altra cosa, e ci sarebbe un conflitto di interessi enorme.” Lui mi guardò vuoto, come faceva sempre quando si parlava di soldi e privilegi, come se fossi io quello che non capiva.
Ma questa volta non funzionò; chi lo aveva chiamato si offese davanti a una richiesta illogica perfino per lui, il nostro capo europeo mi chiamò, di nascosto, per chiedermi se Fantoni fosse impazzito. Gli raccontai tutto macchiandomi l’anima di irriconoscenza e di gioia invidiosa, ma era arrivato il tempo di farlo.
Quando sei potente e cadi, cadi velocemente. Due mesi dopo Giorgio non aveva più titolo, biglietto da visita, stipendio bonus e ufficio. Il suo archivio di piccoli segreti era stato travolto da dei dossier molto più grandi, come un’utilitaria viene schiacciata da un camion. Le amicizie politiche che si era faticosamente costruito lo tenevano alla larga, avvertite dal ministro della sua inaffidabilità.
Gli restavano qualche decina di milioni di euro, e decise che sarebbe diventato imprenditore. Cercò per due anni un’azienda da comprare ma si scontrò con il fatto che quelli che vendevano volevano dei soldi, veri. E che non gli bastava l’onore di essere acquistati da lui. Nessun progetto sembrava essere degno dei suoi soldi. Iniziò a organizzare un vorticoso ciclo di inviti nella sua villa tra le montagne, nel tentativo di ritrovare le amicizie che aveva perso, invitando giovani che gli erano stati presentati nel passato, politici in ascesa, loro amici.
Comprò una fattoria in Costarica che gli offrivano, non per caso, quasi gratis. Era la base operativa di un gruppo di commercianti di eroina che avevano bisogno di una copertura rispettabile. Lui a sua insaputa diventò quella copertura, fino a quando l’Interpol non sequestrò i campi, il casale e tutto quello che c’era dentro. Ne rimase coinvolto e dovette spendere buona parte dei suoi milioni per avvocati veri.
Io lo sentivo spesso, e speravo che la lezione lo avesse guarito, che potesse provare a godersi gli ultimi anni e gli ultimi milioni. Non servì. Provò a non pagare uno dei suoi avvocati, un penalista famoso, accusandolo di non essere riuscito a farlo assolvere con formula piena.
Questa volta il trucco non funzionò, l’avvocato ebbe facilmente la meglio e lo spolpò. Gli restarono la villa in montagna, un Rembrandt e una depressione che ogni volta che passavo a trovarlo sembrava più profonda. Perdeva i capelli e i conoscenti, e alle sue cene, sempre più rade, andavano solo persone più anziane di lui, segno che il declino si stava compiendo. Svanì nella notte, proprio dopo una di queste cene; non lo trovarono mai e io penso ancora che la depressione fosse solo una maschera per prepararsi la strada. Della sparizione parlarono brevemente i giornali, era stato pur sempre un personaggio con una qualche notorietà.
Cinque anni dopo fu dichiarato morto e alla strana cerimonia che ne seguì, un funerale senza salma, eravamo in pochi e ne parlammo tutti male. Solo il prete, ignaro, ne ricordò i valori.
Maestri a parte, la multinazionale è anche, come tutti i grandi sistemi chiusi, una famiglia. Una grande famiglia. È fondamentale che lo sia perché se non lo fosse sarebbe impossibile passarci così tanto tempo dentro senza impazzire o uscire sbattendo la porta.
Per potere continuare ad avere persone che trascorrono le notti a finire progetti, che rinunciano ai fine settimana per preparare presentazioni, che rimandano i viaggi di nozze per rimediare a casini combinati da altri, non basta pagarle, quando va bene, il cinque per cento in più degli altri. Bisogna trasformare l’azienda in qualcosa che dia una illusione di completezza alle loro vite.
Così si fa in modo che ci si possa trovare tutto. Successo, affetto, amici, nemici, invidie e gelosie. Droghe, piacere, dolore. Si va nelle stesse palestre, si esce tutti a cena, ci si innamora a turno o tutti insieme, ci si sposa e ci si separa, si organizzano i week-end, le vacanze, si portano i figli nei nidi aziendali.
Io ero solo da qualche anno, quindi ero più interessato agli amori che al resto. La solitudine quotidiana cominciava a pesarmi e fuori dal lavoro non sembrava possibile incontrare nessuno, letteralmente non c’era il tempo per farlo.
Nel frattempo, l’azienda continuava a crescere, aprivamo uffici, diventavamo sempre di più. Più fatturato, più persone, più manager. Dopo la caduta in disgrazia di Fantoni, i capi Europei avevano velocemente nominato un nuovo Amministratore Delegato, Andrea Storti, un dirigente interno che a me sembrava vuoto di carisma e pieno di dipendenze, anche se, come sempre, forse era solo un pettegolezzo. Non so come ma io a lui ero piaciuto abbastanza da non indurlo a epurarmi come aveva fatto con molti altri colleghi che avevano lavorato direttamente per Fantoni. Quindi continuavo a navigare, ora ero a capo di una piccola divisione dove sviluppavamo software e avevamo una qualche autonomia; eravamo abbastanza piccoli da poterci disinteressare delle lotte politiche interne dove i troppi sottocapi si combattevano l’uno con l’altro per avere più potere, più persone, e per candidarsi alla successione di Storti: secondo gli stessi pettegolezzi che lo volevano alcolizzato, sarebbe durato poco.
In quella divisione potevo cercare di applicare le mie regole, e le mie idee. E cercavo l’amore.
3 – In treno
Ogni anno organizziamo una festa aziendale che, a seconda degli umori dei capi, può durare un intero fine settimana e celebrarsi in qualche località turistica in mezza stagione, o esaurirsi in una sera e una nottata estenuata in un locale milanese. Abbiamo provato a fare partecipare anche mariti e mogli in nome dei valori della famiglia e dell’equilibrio tra lavoro e vita personale, ma non ha funzionato. Era come un addio al nubilato con i genitori seduti al tavolo vicino.
Così questi eventi hanno preso una piega un poco rave e anche io, da quando ho avuto voce in capitolo nell’organizzazione, ho spinto perché si lasciassero succedere più avventure possibili. Più ubriachi, più nuove coppie, più tradimenti, più sciocchezze nella notte, anche al costo di dovere passare del tempo a convincere i carabinieri locali che l’avere trasformato la via Aurelia in una sala da ballo alle tre del mattino fermando il traffico e coinvolgendo chiunque passasse di lì fosse stata solo una ragazzata. La promiscuità, in azienda, costituisce un valore prezioso. Non solo promiscuità sessuale, ma promiscuità di emozioni, gioie, passioni, che compensi la atonia emotiva del lavoro quotidiano, della routine, dei giorni sempre uguali. Un company meeting di successo, dove si creano storie e leggende che si tramanderanno tra generazioni di colleghi, è più importante per la salute dell’azienda dei risultati finanziari. L’epica batte la finanza. Da sempre.
Avere un ruolo, meglio se positivo, in qualcuna di queste avventure - che possono solo restare ufficiose - si può anche trasformare in un aiuto alla carriera, se si è dalla parte giusta della morale. Ho sentito raccontare che Andrea Storti, l’amministratore delegato dopo Fantoni, diventò dirigente giovanissimo per avere rianimato un collega che, pieno di mdma fino ai capelli, aveva pensato bene di finire la notte sul fondo di una piscina, piena. E allora sarebbero stati guai grandi. Nessuno lo confermerà mai, ovviamente.
Un anno abbiamo affittato un treno intero e siamo andati in riviera. Averlo tutto per noi era la sublimazione delle gite scolastiche in treno del liceo. Ora eravamo grandi e il treno era nostro, e tutto quello che nelle gite scolastiche era solo una vaga possibilità ostruita da mille divieti qui era reale e alla portata di tutti. L’alcool, la droga, il sesso restavano scoraggiati e censurati da ogni norma di comportamento aziendale, ma erano a portata di mano e noi ce li prendevamo, in gruppo. L’attenzione che riservavamo alle mail che descrivevano pedanti i comportamenti da tenere e quelli da evitare durante il meeting era inferiore all’attenzione con cui si ascoltano le hostess che fanno la dimostrazione di sicurezza prima di un decollo.
Quel viaggio d’andata in treno è stato un fiorire di piani, di intenzioni, una continua compilazione di classifiche indicibili e di sondaggi ammiccanti, una allegrissima festa di tutto quanto è scorretto dire e fare tra colleghi. Dagli occhi più belli alle migliori avventure in ascensore per poi arrivare naturalmente ai più scopabili per entrambi i sessi, mescolando sensibilità adulte a quelle da seconda media che non ci avevano mai abbandonato e lasciando trapelare i risultati con parsimonia.
Il sabato notte dopo discorsi, premiazioni e danze ufficiali ci siamo sparpagliati per la spiaggia; nel mio gruppetto eravamo una decina, siamo saliti dalla riva verso uno stabilimento, abbiamo affiancato quattro lettini e ci siamo creati una piccola piazza dove accamparci. Stretti, teste su pance, schiene su gambe, maglioni stesi sopra di noi come fossero coperte. La conversazione era piana, straordinariamente ordinata, qualcuno partiva da un pettegolezzo e qualcun altro lo trasformava in una storia vera, lasciava intravedere i lati più interessanti di sé, faceva sapere qualcosa che non aveva mai detto. Prima temi sciocchi, insignificanti, poi piano piano si saliva di livello ed emergevano infelicità insospettate, tradimenti epocali. Era una corsa a svestirsi lasciando scoperto per qualche istante un pezzo di anima, qualcosa che potesse suscitare interesse; non c’era alcuna pulsione fisica in quel gruppo di corpi sospesi sopra la sabbia, era una grande gara di seduzione verbale collettiva, qualcosa di simile alle sedute di autocoscienza nella sala di casa di quando si era ragazzi e i genitori erano via nel fine settimana, negli anni Settanta.
Mentre era il mio turno e raccontavo di quanto avere il potere mi facesse molto più male che bene, una mano cominciò a stringere la mia. Non potevo sapere con precisione di chi era, ma sapevo benissimo di chi speravo che fosse. Restammo così fino a quando cominciava a schiarire. Poi, intorpiditi, ci avviammo tutti insieme verso i riti della mattina di chi non è andato a dormire.
Il ritorno in treno fu silenzioso. Il sonno perduto, lo smaltimento di alcool e pastiglie dominavano umori e comportamenti. Davanti a me dormiva Orietta Bergomi, la mia speranza inespressa della notte precedente. Orietta erano i capelli dell’ancella della Venere di Botticelli, una voce roca e un’apparenza riservata rotta da pochi e memorabili atti di esibizionismo; due zigomi tondi che si accendevano a comando e due occhi lunghissimi. Ora quegli occhi invece di essere chiusi nel sonno erano rimasti leggermente aperti, come in una dichiarazione di attenzione. O come in una promessa, ad essere più sicuri di sé. “Ti voglio guardare”, mi dicevano, e io non riuscii a smettere di fissarli per tutto il viaggio. Il mio stato di ipnosi era visibile ai pochi altri svegli nel vagone, ma non mi importava. Volevo essere sicuro che quando lei avesse aperto davvero gli occhi avrebbe visto che la stavo guardando. Non volevo più nemmeno sbattere le palpebre, per paura di perdere l’attimo.
Quando finalmente successe non fu memorabile. Il treno si stava fermando e l’attimo di perfetta poesia che mi aspettavo non ci fu. Uscimmo tutti sparsi dalla stazione, pronti a rivederci in ufficio la mattina dopo.
La gerarchia geografica delle multinazionali definisce successo o disgrazia dei manager dei vari paesi. Schemi misteriosi accorpano le nazioni in gruppi, seguendo i più diversi criteri. Il risultato è che ogni multinazionale è fatta a modo suo. Ma grossolanamente tutte dividono il pianeta in Nord America e Resto del Mondo, che poi è sparito in due o tre macro-continenti, spesso Europa, Asia-e-Australia e America Latina, ma a volte semplicemente Europa e tutto il resto. L’Africa compare di rado, come è il suo destino.
L’Europa, a sua volta, è separata in sei o sette gruppi di nazioni secondo latitudine, longitudine, lingua, propensione al risparmio o al dissipamento, regimi di governo, storia, dimensione o struttura economica, tutto può valere. Quindi l’Italia può appartenere al Sud Europa, o all’Europa Occidentale, a volte starsene da sola o essere subordinata alla Francia, o trovarsi a guidare magari la Grecia e Malta.
Seguendo dal basso verso l’alto questa gerarchia si ottiene il ciclo delle “Business Review” che è il metronomo silenzioso che anima le multinazionali. Ogni livello della gerarchia geografica ha il suo gruppo dirigente, un capo, un assistente del capo, un responsabile per ogni funzione, le vendite, lo sviluppo, il supporto, le risorse umane, i legali, la finanza. E ogni livello, ogni mese o ogni trimestre, fa le pulci al livello inferiore, in quella che si chiama una Business Review. Un interrogatorio mascherato da discussione, una richiesta di spiegazioni e ragioni per ogni scostamento dal previsto, che quasi sempre si conclude con un pistolotto cerchiobottista del capo del livello superiore, che ricorda ai sottoposti i loro errori ma ne sottolinea i meriti pensando così di evitare sia entusiasmi che tendenze depressive. In verità, nella maggior parte dei casi, gli errori o i meriti o entrambi sono risibili, e la conclusione risuona visibilmente falsa.
Il livello intermedio, a sua volta, sarà poi interrogato dal livello superiore e così via, per almeno tre o quattro passaggi, formando un’onda che parte dalle singole nazioni, raccoglie i dati e le impressioni, li accumula, li consolida, e come succede nel telefono senza fili, li distorce fino a renderli irriconoscibili e inutili quando si arriva alla fine della catena.
Quasi sempre questi interrogatori sono virtuali, fatti per telefono o per videoconferenza e durano un’ora o poco più, ma molte multinazionali, almeno una volta all’anno, organizzano un extended play dove tutti volano da qualche parte per incontrarsi e in quelle circostanze la pena può durare anche ore.
4 – Grand Plateau
“Ci sono dei riti da rispettare!”
Storti era su di giri e nel ristorante si sentiva solo la sua voce. Gli piaceva comandare, questo era chiaro a tutti. Era in carica ormai da due anni e dopo un inizio difficile, in cui molti pensavano sarebbe stato una meteora, ora sembrava saldamente in sella. Il suo vizio di bere disordinatamente, che era visibile a tutti, non aveva avuto ricadute professionali - si trattava di un alcolista funzionale - ma lo portava a materializzare il suo comando anche al di fuori della sfera lavorativa.
Voleva avere ragione su tutto, e i ristoranti erano lo spazio ideale per esercitare questo suo bisogno. Ordinava lui per l’intero tavolo, criticava aspramente chi chiedeva eccezioni e teneva musi lunghissimi a chi osava argomentare contro le sue scelte. Il tutto a voce alta, a beneficio dei camerieri e di tutti i tavoli vicini.
Quella sera il rito di cui berciava Storti in realtà si stava già compiendo: tutto il gruppo dirigente della filiale italiana era a cena in un ristorante a Porte Maillot, proprio dove finisce Avenue de la Grande-Armée, esattamente a metà del cannocchiale tra l’Arc de Triomphe e la Grande Arche.
Dieci anni e un amministratore delegato prima, la sera che precedeva la Business Review europea di quell’anno, la dirigenza di allora era entrata per caso proprio in quel ristorante, Le Congrès. L’ambiente era fané, i camerieri vecchiotti e poco cordiali con gli stranieri, il conto astronomico ma la review il giorno dopo era andata benissimo, e l’Italia era stata promossa al rango di geografia di primo livello, seguita direttamente dal quartier generale europeo, senza dovere più riportare prima agli odiati francesi.
Un trionfo, e la nascita di un nuovo rituale scaramantico, la cena a Le Congrès. Io ci partecipavo da cinque anni, da quando Fantoni, il predecessore di Storti e creatore della tradizione, mi aveva promosso e io avevo acquisito il dubbio onore di partecipare alla review.
Il processo di avvicinamento all’evento durava almeno tre settimane di lavoro ininterrotte, inclusi i fine settimana, dedicate a preparare enormi fogli Excel stampati in A3, ognuno denso di migliaia di cifre, e poi a intavolare interminabili discussioni sul come fare emergere dai quegli stessi numeri solo quello che andava bene, mascherare le debolezze e gli errori e preparare storie più o meno credibili nel caso la maschera fosse caduta.
Di queste settimane pre-review, di questa immersione collettiva in una bolla che ci faceva dimenticare tutto, amici, clienti, amori, per pensare solo a come fare bella figura, o perlomeno a come non farla troppo brutta, il giorno della vigilia era la sola parte che mi fosse sempre piaciuta, credo proprio per la sua funzione di cesura tra una preparazione sfiancante e l’atto finale. E per un gusto un poco goliardico.
Ci incontravamo tutti in ufficio la mattina, di solito eravamo almeno una dozzina di colleghi tra vendite, prodotti, supporto, marketing, finanza e risorse umane. Ognuno si metteva sottobraccio tre o quattro enormi faldoni di carta che contenevano la nostra presentazione, e si saliva sui taxi per l’aeroporto. Poi in aereo si faceva finta di ripassare, in realtà ci si comportava come una classe di liceo in gita. Ci si alzava dai posti, si facevano battute ad alta voce. Un modo per esorcizzare il nervosismo.
Arrivati a Parigi, in albergo, un anonimo Hyatt intorno all’aeroporto dove si sarebbe tenuta la review il giorno dopo, si faceva un ultimo ripasso collettivo serio fino all’ora della cena, poi un altro taxi, Le Congrès, e io potevo tuffarmi su un Grand Plateau di frutti di mare e dimenticarmi per mezz’ora del resto. Finivamo sempre, a meno che non diluviasse, per camminare fino all’inizio degli Champs Élysées prima di decidere di tornare in albergo e affrontare il sonno agitato di chi non si sente preparato. Quel giorno, e il successivo, erano forse gli unici due dell’anno in cui ci sentivamo davvero un gruppo, in cui anche le solite invidie e gelosie erano accantonate, perché sapevamo che dall’esito della review dipendevano le nostre fortune, monetarie e morali.
Quella sera però Storti stava esagerando, voleva dare il suo imprinting al team e aveva già bevuto un po’ troppo. Insisteva oltre misura perché tutti prendessero i frutti di mare, sostenendo che anche un solo astenuto avrebbe portato sfortuna. Tra la sua insistenza a forza di grida e sfottò e il retropensiero che ognuno aveva di non volere essere poi accusato di menare gramo se qualcosa non fosse andata bene, dopo due o tre dinieghi anche i più restii cedettero.
Io ero infastidito da Storti, da quanto beveva e da quanto si comportava da cazzone dopo aver bevuto, ma le ostriche e i frutti di mare mi andavano benissimo, anzi ne approfittavo per mangiare tutto quello che i contrari lasciavano nell’enorme piatto a centrotavola dopo avere piluccato un’ostrica solo per bandiera e cenato a pane e qualche gamberetto. Il mio opportunismo gastronomico rifletteva quello aziendale, in qualche modo continuavo ad approfittare di quello che nell’intimo disprezzavo.
Quella sera la forzatura di Storti aveva lasciato tracce nell’umore di tutti e per la prima volta un paio di noi si sfilarono dalla passeggiata e rientrarono direttamente in albergo, e io pensai fosse un cattivo presagio. Ero scaramantico come gli altri, se non di più.
La review cominciava alle otto e sarebbe andata avanti per cinque ore. Storti non aveva né passione né comprensione per i numeri, e quindi nei due anni precedenti aveva tenuto per sé solo l’introduzione, lasciando poi che il direttore finanziario, Giacomo Rigotti, parlasse per almeno un’ora dei risultati e delle previsioni che avevamo per i mesi a venire. Quando Giacomo si taceva, iniziavano le domande e lì ognuno doveva parare e rispondere per quanto lo riguardava. Fino a quel giorno aveva funzionato.
Con Rigotti ero sempre andato d’accordo perché era uno sgobbone preciso, della razza di quei brianzoli con cui non vorresti mai parlare di politica o degli affari tuoi ma da cui non devi aspettarti cattive sorprese. E conosceva i numeri.
Alle sette e mezza eravamo tutti nella sala, noi e gli europei. Per ognuno di noi c’era un corrispondente europeo, e in alcuni casi più di uno, più qualche osservatore dal quartier generale americano; eravamo in trentadue in tutto.
La sala era enorme, senza finestre, fatta per grandi eventi, per concorsi di bellezza o feste di beneficenza, ed era disposta con i tavoli affiancati a formare i lati di un rettangolo, lasciando un grande vuoto centrale. Sei persone per ogni lato corto, dieci sui due lati lunghi.
Grandi segnaposto con i nomi di tutti, Storti era al centro di un lato corto e il capo dell’Europa, un certo Hoist di cui non sapevamo molto e che era appena stato promosso a quel ruolo dopo essere stato il capo della Germania, al centro dell’altro.
Tra i due capi c’erano almeno otto metri di distanza. Poi intorno a Storti i segnaposto dei manager più importanti, Rigotti a destra e Marsici del personale a sinistra, e via via tutti gli altri, sempre mantenendo la simmetria con i corrispondenti europei. Io ero poco importante, e quindi il mio posto era defilato, su uno dei lati lunghi del rettangolo, dove sedevano i capetti con meno potere.
Tra noi e gli europei, a dividere gli schieramenti al centro dei due lati lunghi, c’erano gli osservatori americani, a volte dei manager molto in alto nella gerarchia, a volte dei ragazzi mandati per fare esperienza.
La tradizione era che, prima dell’inizio, ognuno di noi desse una copia del faldone A3 al suo corrispondente europeo (per questo eravamo partiti da Milano carichi di carta) e ne approfittasse per scambiare con lui qualche battuta, più o meno formale a seconda del livello di intimità che aveva. Era di fatto l’unico momento che avevamo per capire se gli europei avessero già deciso quali temi approfondire, dove farci il culo e dove no, quindi era importante che tutti fossimo puntuali. Il mio collega europeo era in quel ruolo da più di dieci anni e stava tirando a campare, non aveva intenzione di farsi notare attaccandomi o mettendomi in cattiva luce, ma mi fece notare che mancava Rigotti. Nella concitazione del momento nessuno se ne era accorto.
Cercai lo sguardo di Storti e gli indicai il posto di Rigotti, vuoto, e il capo finanziario europeo, seduto al suo posto già con l’aria scocciata per non avere ricevuto la sua copia del faldone. Storti sbiancò, in un attimo eravamo tutti e due con il cellulare a fare lo stesso numero, ma non rispondeva. Corsi su, la sua stanza era al mio piano, l’avevo vista quando avevamo fatto il check-in. Suonai, battei i pugni.
Mi aprì, in mutande, e immediatamente rientrò in bagno a vomitare.
“Voi e le vostre cazzo di ostriche”, e una serie di insulti al mondo e a Storti.
Non era in condizioni di alzare la testa dalla tazza del cesso, figuriamoci di essere presente alla review. Quando scesi e gli dissi cosa avevo visto, a Storti si abbassarono i lati della bocca in una smorfia e sembrò ingobbirsi. Mise via il sorriso prestampato da capo, con cui stava stringendo le mani a tutti e andò a sedersi, serio, aprendo forse per la prima volta la sua copia del faldone.
Scoprimmo in fretta molte cose di Hoist. Che non gli piacevano i preamboli. Che credeva che la verità stesse nei numeri. Che non gli interessavano le considerazioni qualitative e gli aneddoti. Che per lui l’amministratore delegato di una società deve conoscere tutti i dettagli, non essere semplicemente un allenatore. O un portavoce. Che amava la precisione. Che ogni affermazione doveva essere provata. Non risparmiò a Storti nemmeno uno dei chiodi con cui inchiodarlo alla sua croce. Mani, costato, piedi. La prima ora fu un massacro, e Storti annichilito. Poi Hoist tacque e per le altre quattro ore ce la cavammo discutendo con gli altri europei dei dettagli delle varie divisioni; Hoist non parlò più fino alla fine, quando è tradizione che il capo europeo ringrazi il paese per il lavoro fatto, con parole di circostanza nelle quali, dalle diverse enfasi degli aggettivi, spesso gli aruspici possono capire come sia andata. Fu incredibilmente breve.
“Ringrazio i colleghi di Storti per la loro preparazione”.
Storti non tornò con noi a Milano nel pomeriggio come era programmato. Non sapemmo mai cosa fece quella sera ma venne in ufficio due giorni dopo, lo svuotò e salutò chi c’era. Nessuno lo rimpianse, solo Rigotti, che aveva buon cuore, lo chiamò per scusarsi.
A turbare il ritmo perfetto scandito dalle Business Review ci sono le visite dei grandi capi che dall’America arrivano a rendere visita alle periferie. Lo fanno perché pensano che ci faccia piacere (il loro ego non ammette il dubbio) e soprattutto perché sanno che le Business Review non gli permettono di capire davvero che tipi siamo. Quindi vengono per controllare, e per valutarci nel mondo reale.
Quelle visite durano sempre poche intensissime ore, ma la loro preparazione richiede mesi e l’esecuzione è sempre appesa a un filo.
Un contrattempo, un piccolo errore che in situazioni normali verrebbe archiviato senza pensarci, durante questi eventi può costare una carriera.
Uno dei miei colleghi migliori, proprio quello che avevo già indicato come colui che avrebbe potuto prendere il mio posto, aveva organizzato un incontro con un gruppo di clienti dove l’attrazione principale era la presenza di un grande capo americano in visita, un personaggio con uno stravagante carisma di cui parlavano spesso anche i giornali italiani.
Mentre moderava la discussione e la traduceva, il collega aggiunse alla risposta del grande capo un suo commento personale, non carico di saggezza ma assolutamente inoffensivo. Una precisazione non necessaria, ma sufficiente a causare una alzata di sopracciglio del carismatico leader. Fu abbastanza per eliminare l’incauto dalla lista dei miei possibili successori, e per terminare per sempre la sua carriera.
Per me queste visite erano comunque divertenti, rappresentavano la parte avventurosa del lavoro, come quando a un funzionario di ambasciata viene chiesto, una volta ogni tanto, di partecipare anche solo come comparsa a una qualche trama ordita dai servizi segreti. Ho passato una notte insonne guidando da Milano a Roma un furgone con tutto il mio team dentro per arrivare a prendere il grande capo in aeroporto perché l’Italia era in sciopero (ma lui arrivava con l’aereo privato). Ho parlato con persone con cui non avrei mai parlato altrimenti, mi sono ubriacato più volte a fine visita, e una volta mi sono definitivamente innamorato.
È successo proprio quella volta in cui non avevo nemmeno un capo – Storti era stato cacciato e il suo successore non era ancora stato designato. Così mi era toccato non solo organizzare tutto ma anche dover fare io da ospite.
5 – Burger King
Vengono, a volte, a visitarci.
Ai tempi eroici i fondatori delle nostre aziende venivano accolti come profeti e riflettevano luce che illuminava chi era al loro fianco.
In quei giorni aridi invece la visita dell’ennesimo amministratore delegato mondiale non interessava quasi nessuno, tranne noi che dovevamo fare in modo che sembrasse tutto come ai vecchi tempi.
“Simone, hai visto, Kirill vuole venire in Italia fra tre mesi” era la frase che Simone Pascoli, il mio capo del personale, non avrebbe mai voluto sentire.
“Vuoi dire che devo organizzare le folle?”
“Si, ma è la prima volta che viene, dobbiamo scoprire cosa gli piace”. Per scoprirlo non impiegai tanto. Poche ore dopo arrivò un memorandum dal suo ufficio che chiedeva un trattamento da capo di stato, e non in senso figurato: tra le richieste c’era, infatti, d’incontrare il Presidente del Consiglio o, se fosse stato occupato, almeno quello della Repubblica. E si raccomandavano con pertinenza che in questi incontri il nostro uomo avesse sempre a portata di mano una lattina di Coca Zero.
Guardai Simone. “Non fare quella faccia sarcastica. Lattina o non lattina, ora arriva e dobbiamo muoverci”.
Con l’aiuto di un compagno di liceo che vivacchiava nel mondo romano convinsi un consigliere del nuovo Presidente del Consiglio che incontrare Kirill Tarper lo avrebbe fatto apparire in una luce più moderna.
Con Orietta, la direttrice del marketing, decidemmo per un evento in un teatro davanti a più di mille sviluppatori di software che in quegli anni erano una audience facile e entusiasta e che avrebbero dovuto soddisfare il bisogno di Kirill di essere adulato. Per essere sicuri di adularlo abbastanza, subito dopo mettemmo in agenda la tradizionale riunione con tutti i dipendenti.
Poi, per assicuragli imperitura gloria e ritagli di giornale da portare ai suoi figli, ci sarebbe stata un’intervista esclusiva con il giornalista di grido, che tutti sapevamo avere un legame con la Bergomi di cui io non avevo mai voluto approfondire la natura, geloso della possibile risposta.
Organizzammo anche un pranzo e una cena con gli amministratori delegati di due banche. Erano in cattive acque, e tutte e due speravano che incontrare Kirill li potesse aiutare a mascherare anche solo per qualche giorno i loro problemi con qualche comunicato stampa congiunto che ne lodasse le capacità innovative.
Tra l’atterraggio e la partenza del Falcon 2000 con cui si spostava per il mondo, Parigi-Ciampino, Ciampino-New York, c’erano esattamente dieci ore. Quattro delle quali, una enormità a pensarci, le avremmo passate muovendoci da un angolo all’altro di Roma in un lussuoso van metallizzato, in realtà un furgone con i sedile posteriori di pelle disposti a salottino a garanzia di mal d’auto per gli sfortunati girati nel senso contrario alla marcia. Era tutto calcolato, tutto contenuto in un raccoglitore denso di fogli che scandivano gli intervalli di tempo e descrivevano ogni minuto delle dieci ore.
Il diluvio che oscurava il cielo di Roma la mattina dell’arrivo non l’avevamo previsto.
Pioveva così forte che bastò la discesa della scaletta dell’aereo per consegnare al ventre accogliente del furgone un Kirill Tarper fradicio, incazzato e mal disposto. Non ci salutò, agitò la mano verso l’areo dove intravidi una ragazza bionda di fianco alla hostess. “Dove è la Coca Zero?” furono le sue prime parole. Gliela diedi, la giornata si annunciava in salita. Per fortuna la pioggia diminuì, il traffico romano fu clemente e arrivammo a Palazzo Chigi appena in tempo. Il cocktail di buche, frenate e accelerazioni che rende così speciale viaggiare per Roma aveva fatto diventare Kirill leggermente verdastro, ma sembrava resistere. Solo alla fine della riunione, dove aveva parlato per quasi un’ora con un Presidente del Consiglio molto ciarliero, riuscendo, glie ne va dato merito, a rimanere serio e a evitare ogni argomento che potesse sfociare in una richiesta di soldi, ci fece capire che aveva bisogno di una sosta e noi pronti dirottammo il valletto che ci accompagnava attraverso i corridoi verso il primo bagno. Mentre Kirill vomitava mi arrivò un messaggio da un collega francese.
“Burger King”, diceva soltanto. “?”, risposi. “Burger King”, ancora, fu la laconica replica. Non c’era tempo per chiamarlo, dovevo spiegare all’autista di avere un poco di pietà e comunque il ristorante per il pranzo era vicino. Ma “Burger King” mi ronzava nella testa.
A pranzo Kirill non sfiorò nemmeno il cibo ma fu impeccabile con i clienti, riusciva a mantenere la conversazione al giusto livello di superficialità per rendere ogni incontro soddisfacente e al tempo stesso inutile. Arrivati nel nostro ufficio fu affabile con tutti i dipendenti che avevamo schierato per l’occasione e, dopo un panegirico inconcludente sui valori aziendali, rispose con sicurezza fin eccessiva alle domande che Simone aveva prima vagliato e censurato.
Mentre Kirill parlava mandai un altro “?” al francese e mi girai verso Orietta Bergomi che era seduta di fianco a me. Le feci vedere i messaggi e le bisbigliai “Cosa vorrà dirci?”. Orietta, più seria del solito, cominciò a scrivere sul suo telefono. Ma Kirill aveva finito e dovevamo muoverci.
Arrivare al teatro fu complicato. A metà strada Kirill interruppe di scatto Orietta che gli stava raccontando i dettagli dell’evento con gli sviluppatori e ci gridò di fermarci. Doveva andare di nuovo in bagno. Eravamo su un viale fuori dal centro, verso il nuovo auditorium della musica dove avevamo organizzato l’evento. “Ho bisogno di un bagno, ora”, stava quasi urlando. C’era un benzinaio, uno dei pochi rimasti in città. Feci fermare il furgone. L’autista chiese, il benzinaio scosse la testa, il bagno era privato. Scesi io, insieme al mio uomo che ora tremava cercando di trattenersi. “Tutto quello che vuoi” dissi al benzinaio che girò la chiave della porta sul retro del suo chiosco. Non era un bel vedere, ma Kirill si accontentò, e il benzinaio si accontentò del mio orologio. Avrei dovuto trovare un modo creativo di farmelo rimborsare.
Arrivammo con venti minuti di ritardo, ora Kirill sembrava stare bene e Mario Cattivi, il nostro evangelista che aveva il compito di fare da tappabuchi nel caso fossimo stati in ritardo smise a malincuore di raccontare barzellette. Gli applausi di più di mille persone sembravano rinfrancare Kirill, che raccontò i soliti quattro concetti in modo meno noioso del solito. Nell’istante in cui lui scendeva dal palco, Orietta mi si avvicinò con un sacchetto di carta marrone, me lo diede e scappò ad accogliere il suo amico giornalista famoso.
Mentre accompagnavo Kirill verso il camerino per l’intervista, lui si piantò in mezzo al corridoio e mi guardò, come se mi vedesse per la prima volta.
“Dov’è il mio Whopper?”
“Aldo sono le quattro, dove è il mio Whopper?” insistette, di fronte al mio silenzio.
Io aprii il sacchetto; dentro ce n’era un altro, giallo e rosso. Burger King. Dentro il sacchetto giallo e rosso, un cartoccio. “Whopper”, c’era scritto, e la E di “Whopper” era fatta da tante strisce colorate. Kirill me lo strappò di mano e cominciò a prenderne a morsi il contenuto.
Eravamo salvi, ad un passo dal baratro. Per sadismo o per vergogna l’assistente di Kirill ci aveva omesso il dettaglio che la dieta di Kirill, Coca Zero a parte, fosse costituita da un particolare hamburger, di una specifica catena. Il Whopper; alle tre e mezza di ogni pomeriggio. Il francese mi aveva mandato quel messaggio solo per riderne insieme, convinto che io conoscessi quella mania.
Orietta, mentre Kirill si svuotava le viscere, era riuscita a chiamarlo e a farsi spiegare. Aveva unito i puntini, e ci aveva salvato. Non era più solo bellissima, aveva mostrato un carattere che non le avevo mai visto.
Il resto della giornata filò liscio, lo stomaco di Kirill era tornato in esercizio grazie al Whopper, il giornalista famoso commentò sottovoce in italiano il suo alito cattivo ma non lo scrisse.
Alle 10 di sera eravamo di nuovo a Ciampino; Kirill nell’ultimo tragitto si era lamentato della macchina e del traffico ma tutto il resto gli era piaciuto. Il risultato fu perfetto, non avrebbe mai più chiesto di venire a Roma ma avrebbe parlato bene di noi.
Ero radioso, anche se non capivo chi fosse la ragazza bionda che aveva riaccolto Kirill nell’aereo. Mi girai verso Orietta e la invitai a bere da qualche parte. Avrei davvero voluto sapere chi fosse quel giornalista per lei, ma non ci fu modo di scoprirlo. Invece scoprì che beveva come un omino della funivia, che adorava camminare nella notte romana cercando il prossimo locale ancora aperto e che aveva addosso un leggerissimo odore di inchiostro.
Finì con me troppo ubriaco anche per solo cercare di baciarla, ma non abbastanza da non capire di essermi innamorato.
Nelle multinazionali le videoconferenze erano già una prassi da molti anni.
Nella notte dei tempi, per parlarsi in tanti si dovevano compiere delle operazioni macchinosissime con telefoni che sembravano delle stelle marine e chiedevano di introdurre codici lunghissimi su tastiere fatte per bambini con le dita piccole. Le aziende ricche si potevano permettere salette minuscole con videocamere e televisori che avevano bisogno di un tecnico dedicato per poter funzionare, costavano un occhio della testa e si dovevano prenotare in anticipo.
Tutte cose che oggi fanno l’effetto delle presentazioni con i lucidi e le lavagne luminose.
Oggi invece è semplice, con la telecamera e il microfono del PC che ci permettono di lavorare insieme stando in tanti posti diversi intorno al mondo e di rompere i coglioni ai colleghi a qualunque ora del loro giorno.
Queste nuove videoconferenze aiutano a ottenere più profitti, non costa nulla farle funzionare e ci riescono quasi sempre anche gli amministratori delegati, ci fanno viaggiare meno, che vuol dire spendere meno e lavorare di più, e quindi sono considerate miracolose da tutti.
Quasi tutti. Nicola Cavallini lavora per me, è responsabile dello sviluppo dei prodotti nella mia divisione. Tutti lo consideravamo bravissimo e io l’avevo indicato come il mio successore, in questa pratica edipica che hanno ormai tutte le multinazionali per cui ogni capo deve non solo indicare chi lo potrebbe sostituire ma anche indicarne il livello di prontezza: pronto subito, pronto tra un anno, pronto tra due anni… . Io avevo detto che Nicola sarebbe stato pronto tra un paio d’anni, solo perché ero io stesso a non sentirmi ancora pronto per la mia successione.
6 – Prendere decisioni
Nicola: Ciao sono Nicola, buon pomeriggio a tutti
Michael: Ciao sono Michael, buongiorno
Clara: Michael, è presto per te!
Michael: Ciao Clara, si sono le sei qui in Texas
Nicola: Allora buongiorno per te!
Kim: Salve a tutti, sono Kim
Michael: Ciao Kim, stai usando il video, aspetta che accendo la mia videocamera
…
Clara: Michael, non sono sicuro che sia una buona idea. Da quanto non ti fai la barba?
Michael: Nelle settimane in cui lavoro da casa la faccio solo il sabato
Nicola: Se ci siamo tutti possiamo cominciare, io ho un’altra call subito dopo e non posso andare lungo con questa
Michael: Anche io, non posso sforare nemmeno di un minuto, devo preparare i bambini per la scuola
Clara: Manca Karen. Sembra online ma non mi risponde
Nicola: Iniziamo senza di lei, Michael per favore condividi le slide
…
Nicola: Michael, mi senti?
…
Michael: Scusate ero in mute io parlavo voi non sentivate. Vedete tutti le slide?
Clara, Nicola: No
Michael: Adesso?
Nicola: No, sei sicuro che le stai condividendo?
Michael: Si. Aspettate che esco e rientro
…
Kim: Chissà perché non riesce mai a farlo funzionare
Nicola: Credo abbia una vecchia versione del programma
Michael: Eccomi, ora le vedete?
Tutti: Si
Michael: Posso cominciare?
Nicola: Si, ci restano solo venti minuti, cominciamo
Michael: Come avevo anticipato la scorsa settimana, il nuovo prodotto che stiamo sviluppando si chiamerà Adventure. Abbiamo testato il nome con cinque diversi gruppi di riferimento il risultato è stato positivo, il problema…
Kim: Cosa intendi quando dici positivo?
Nicola: Kim lascialo continuare….
Karen: Ciao a tutti, scusate il ritardo, sono Karen!
Clara: Ciao Karen, come stai?
Karen: Io benissimo, grazie, è una bellissima mattina di sole qui…
Nicola: Scusate, ci resta poco tempo
Karen: Oh, va bene. Scusate ancora il ritardo, ero in un’altra call che non voleva finire; Michael mi riassumi quello che avete già discusso?
Michael: Il n..vo…p.tto…Ad..re. Te—tto. Nome—cq.. p.s..vo. M..è…p..bma…
Nicola: Michael, non riusciamo a capirti
Michael: I..vi se..o.. b.ene
Karen: Lui ci sente bene!
Nicola: Si ma noi non sentiamo lui
Kim: Forse è perché stiamo usando il video, non c’è abbastanza banda
Nicola: Ok, chiudiamo i video
Karen: Ecco
Clara: Fatto
Nicola: Anche io, ma Kim non è più connessa. Karen per favore, chiamala al telefono
Michael: Ora mi sentite?
Nicola: Si Michael, ora ti sentiamo. Ma manca Kim
Karen: È al telefono, aveva schiacciato il pulsante sbagliato ma ora non riesce a rientrare
Nicola: Karen se metti il telefono in viva voce forse riesce a sentirci
Karen: Ok, è in vivavoce
Michael: Dicevo che i focus group focus group focus group focus group focus group…
Nicola: Michael c’è un eco fortissimo non si capisce nulla mettiti in mute mute mute mute…
Kim: Karen spegni il vivavoce vivavoce vivavoce vivavoce…
….
Nicola: Michael?
Kim: L’eco è andato via
Nicola: Michael, ricomincia!
…
Nicola: Michael, sei in mute
…
Michael: Scusate, eccomi. Dicevo che il test…
Kim: Eccomi, sono riuscita a ricollegarmi
Nicola: Ci sono rimasti solo tre minuti. Michael, dai!
Michael: Dicevo che il test del nome del nuovo prodotto è andato benissimo ma che…
Nicola: Michael, scusa se ti interrompo ma dobbiamo andare al punto. Ora non riusciamo a discutere i dettagli, ma dobbiamo decidere se stampare le prime centomila confezioni oppure aspettare
Kim: Ma cosa vuole dire che è andato benissimo…
Nicola: Kim, non abbiamo tempo ora. Decidiamo. Abbiamo convocato questa riunione proprio per decidere. Io sono favorevole, c’è qualcuno contrario?
Clara: Per me va bene
Kim: Io non saprei cosa dire, ma se siete tutti d’accordo…
Nicola: Perfetto. Michael?
….
Kim: Michael, sei ancora in mute
Nicola: Io devo disconnettermi, grazie per l’approvazione, andiamo avanti do subito l’ok alle tipografie. Ciao
Kim: Ciao a tutti…mi stacco
Clara: Ciao, buon fine settimana
…
Michael: …scusate, il fattorino di Amazon ha suonato alla porta e gli ho dovuto aprire, volevo dire che dopo i test abbiamo scoperto che quel nome non si può usare… è già dei nostri concorrenti… Nicola, Kim, mi sentite? Nicola, Karen, dove siete…
Bambini, presto prendete le cartelle che andiamo a scuola, tanto qui come al solito non abbiamo deciso niente…
Dopo questa disavventura che ci costò un sacco di soldi per rifare tutti i materiali che erano stati stampati con il nome sbagliato, Nicola smise di essere un candidato alla mia successione. Restò nel suo ruolo, senza più alcuna possibilità di fare carriera. Io ero più tranquillo, perché a dispetto di ogni manuale di management, sapere che qualcun altro era pronto a prendere il mio posto non contribuiva alla mia serenità.
Sì, perché da un lato io odiavo l’azienda, avevo questo problema di fondo dei princìpi. L’azienda non ne aveva, questo era ovvio, e io ero convinto di averne. Dall’altro lato avevo bisogno del lavoro per vivere, per vivere bene, e non avevo il coraggio e l’intraprendenza per fare qualcosa di radicalmente diverso mettendo a rischio il mio benessere economico.
Era una duplice dissonanza. Una era tra me e l’azienda, l’altra tra il me ideale, che poneva i princìpi sopra tutto e chiedeva uno strappo d’orgoglio o almeno un gesto eclatante, e il me reale, troppo pigro per azzardare qualcosa di nuovo, troppo pauroso di fallire.
Ma convivere con queste due dissonanze richiedeva grandi sforzi, soprattutto per nascondere all’azienda la prima, perché la seconda invece era tutta interiore. C’erano notti in cui i miei sogni erano una zuffa continua tra il mio io-che-ha-una-grande-idea-fonda-una-startup-etica-e-diventa-miliardario-senza-nuocere-a-nessuno e il suo avversario storico, il mio io-rintanato-sotto-al-piumone. Vinceva sempre il secondo.
Così ogni mattina la prima dissonanza si ripresentava. E più ero scontento di come riuscivo a gestirla più le mie notti si affollavano di lotte tra i due io. E spendevo tantissimo tempo nel tentativo di blandirla. Spesso usando mezzi non tanto dissimili da quelli che criticavo.
7 - Da chi nascono i figli
“Credevo che i figli nascessero dalle donne.”
Il mio pollice chiuse la conversazione con uno scatto d’istinto, e fu una fortuna, altrimenti la discussione si sarebbe trasformata in uno scambio di insulti. Interromperla bruscamente mi diede il tempo per riflettere. Scarpieri mi era sempre sembrato una persona moderata, un grigio manager sgobbone con la passione per il Milan adeguatamente sfruttata per intrattenere relazioni con gli altrettanto grigi responsabili tecnologici dei suoi clienti, banche milanesi in perpetuo odore di fallimento.
Ma non uno schiavista. E invece eccoci qui, a discutere perché mai Ettore Giorgi, il capo progetto che gli era stato assegnato, dovesse proprio assentarsi per due giorni in occasione della nascita del suo secondo figlio. “Non è nemmeno il primo”, aveva detto, e poi aveva sintetizzato in quella ultima frase la sua posizione su legge di natura, etica del lavoro e filosofia morale e di portarmi sull’orlo di una crisi di pianto. Ero stanco di sentire idiozie, ero stanco di sentirmi nel posto sbagliato, e non avrei mai chiesto a Giorgi di ubbidire, non dopo anni in cui avevo ripetuto alla nausea a tutti i miei collaboratori che loro erano il nostro capitale. Capitale da macello, ovviamente, secondo Scarpieri.
“Ottavio, Scarpieri sta esagerando, vede solo quello che gli chiede il cliente e manderebbe tutti a farsi ammazzare per rispettare una scadenza. Senza pensare che ce ne saranno altre dopo, e se i ragazzi cominciano a incazzarsi e se ne vanno allora tutto il progetto va nella merda.” Cercavo la forza della ragione parlando con Ottavio Bossani, il mio nuovo capo e nuovo amministratore delegato succeduto a Storti e che era da sempre il manager di Scarpieri. Era una missione suicida, Bossani difendeva le persone del suo vecchio team come se fossero figli, solo un omicidio passato in giudicato poteva farlo vacillare. E infatti: “Eh, Scarpieri non ha tutti i torti, ‘sto bambino lo fa la moglie mica il marito”.
Bossani parlava come Jerry Calà, vestiva come Christian De Sica quando fa il ricco, ed era arrivato a comandare fottendo, uno ad uno, i suoi pari. Io e il mio gruppo lo chiamavamo “il trappolatore” in memoria dei tranelli che aveva teso con successo, o “ranza ranza ranza!”, una specie di grido di guerra che gli capitava di lanciare da dietro la sua scrivania. Ma noi eravamo diversi, obliqui rispetto al suo potere, figli di una acquisizione riuscita a metà e quindi ibridi, non gli appartenevamo al cento per cento. Quel briciolo di autonomia era l’unico appiglio che la coscienza mi avesse offerto per permettermi la convivenza.
“Comunque”, continuava Bossani su uno skype grazie a Dio senza video, “non me ne frega un cazzo dei suoi problemi personali, non si deve muovere dal cliente. Se poi la moglie sta male, vedremo.”
“Ottavio, ma abbiamo appena fatto un comunicato stampa per dire che siamo l’azienda italiana dove le donne vengono trattate meglio, un minimo di coerenza… .”
“Aldo, non confondiamo le cazzate di pubbliche relazioni con i progetti”, mi interrompe. “E poi, qui si parla di un ragazzo non di una donna.”
Appunto, pensai. Ore di discussioni per spiegare che il cambiamento passava dai mariti, dai padri. Gettate via, a meno di trovare una soluzione. Salutai con deferenza, imprecando senza emettere suono, con una smorfia che lui non poteva vedere. Avevo bisogno di una soluzione. Che non coinvolgesse Bossani perché io avevo ancora bisogno di lavorare lì.
Chiamai Simone, il mio capo del personale che ormai era diventato quasi un fratello, anche se ero abbastanza sicuro che mi avrebbe voltato le spalle al primo accenno di caduta in disgrazia. La nostra amicizia si era cementata nel gestire insieme decine di situazioni che sarebbero sembrate paradossali a chiunque fosse venuto dal mondo di fuori.
Così ci eravamo trovati a condividere un certo numero di segreti inconfessabili, alcuni debiti morali che non saremmo probabilmente mai riusciti a pagare e un armadio di scheletri fatti a forma di mail aziendali sciocche, sbagliate, pericolose e compromettenti raccolte negli anni.
“Il nome Scarpieri, cosa ti fa venire in mente?” gli chiesi.
“Scarpieri lo ricordo bene, malato di Milan, noioso su ogni altro argomento. Figli grandicelli, nessun divorzio, nessuna deviazione conosciuta. Caduto in disgrazia una dozzina d’anni fa, poi riabilitato e messo a comandare sulle banche milanesi.”
“Perché era caduto in disgrazia, lo sappiamo?”
“Era capo progetto di un cliente industriale importante e se ne era andato per tre giorni durante un rilascio; il rilascio ebbe dei problemi, la fabbrica si fermò e lui non si trovava neppure al telefono. Ci cacciarono.”.
Quindi, pensai, lui è convinto di essere stato punito per un errore passato ed ora è ossessionato da quel ricordo. “Non è fascista, ha solo un problema di stress post traumatico” dissi a Simone. Ma continuavo a non avere la soluzione. Simone mi aiutò: “Aspetta, non vuoi sapere dove era andato in quei tre giorni?”
Eravamo stati fortunati, in quei tre giorni di fine maggio dodici anni prima era nato il figlio di Scarpieri. Ma lui non era lì, e non era dal cliente. Era a Istanbul, a guardare il Liverpool farsi beffe della sua squadra. Sua moglie non aveva mai compreso quei dieci anni di pausa nella carriera del marito che per quei maledetti progetti aveva sacrificato anche il momento più bello della sua vita.
Chiamai Ettore Giorgi, bastarono pochi minuti per spiegargli cosa doveva fare. Lui fu efficientissimo, non per nulla era uno dei ragazzi migliori. Bastò che il giorno dopo, mascherandola da battuta surreale, dicesse a Scarpieri mentre prendevano il caffè insieme a un ruppo di colleghi che non sapeva se sua moglie avrebbe partorito a Liverpool o a Istanbul. Scarpieri impallidì ma solo Giorgi lo notò.
Ricevetti una chiamata mezz’ora dopo, Scarpieri mi chiedeva con chi avrei potuto sostituire Ettore per quel paio di settimane intorno alla nascita, il cliente avrebbe capito senz’altro e del resto, nella vita di un uomo, ci sono momenti che non ritornano. Gli detti un nome del mio gruppo a caso, lo ringraziai per la comprensione.
Chiamai di nuovo Bossani: “Ciao, sono Aldo. Abbiamo risolto quel problema, Scarpieri ha capito e abbiamo trovato una alternativa.”
“Boh, a me sembra si stia rincoglionendo, ma basta che non ci siano casini.”
Non ci saranno, pensai riattaccando.
Così mi barcamenavo. Bossani era il peggior capo che avrei potuto desiderare, non perché non fosse bravo, anzi era bravissimo, avevano fatto bene a scegliere lui, non aveva scrupoli e sotto la sua guida l’azienda stava generando più profitti che mai. Ma se gli amministratori delegati che l’avevano preceduto avevano molti difetti, Bossani ai miei occhi sembrava sommarli tutti. Di destra, sprezzante verso chi non aveva avuto successo come un teorico dell’eugenetica, e al tempo stesso ingordo e amante del lusso, lusso che ostentava mostrando a tutti ciò che comprava, case, mobili, quadri, sculture, vigne, vini, viaggi; esponeva i suoi trofei pensando a ragione che stimolassero i suoi a cercare di emularlo. Modello di perfetto paterfamilias in pubblico, in privato sconveniente e volgare.
Io resistevo, ma non era facile. In quel periodo anche Orietta mi sfuggiva, sembrava presa da problemi che non avevano a che fare con il lavoro e non me ne voleva parlare, in effetti cercava di incrociarmi il meno possibile. Nemmeno la storia di Scarpieri, che le avevo raccontato pavoneggiandomi l’unica volta in cui ero riuscito a trovarmi da solo con lei per un pranzo l’aveva fatta sorridere. Il mio innamoramento non sembrava per nulla ricambiato.
Insomma, era dura. Aiutava la consapevolezza di essere testimoni, più o meno unici, di accadimenti strani che non verranno mai raccontati sui giornali, perlomeno non nel modo in cui sono avvenuti davvero.
Quando succedeva, anche la mia dissonanza riusciva a chiudere occhi e orecchie. In fondo, queste sono le uniche cose che avrò voglia di raccontare ai miei figli. Le uniche cose che vale la pena ricordare.
8 – Velocità
Le tre di notte di una notte qualunque nel sotterraneo di una grande palazzo nel centro di Milano. Iconico, il palazzo. Molto meno il sotterraneo, due rampe di scale per trovarsi davanti a una porta tagliafuoco che immette in un breve dedalo di cubicoli e piccoli corridoi. Umidità, luce al neon. Alla fine dei corridoi una stanza con dieci tavoli contrapposti a due a due, su ogni tavolo un monitor e davanti a quattro dei monitor io e tre miei colleghi.
Siamo una squadra operativa, il nostro compito è che in ogni momento del giorno e della notte il sito web del nostro cliente, padrone del grande palazzo e di innumerevoli altri in tutto il mondo, risponda coerentemente agli stimoli di chi vuole comprare, vendere o semplicemente sognare una casa. Guardiamo i nostri monitor per controllare che tra il momento in cui il sognatore clicca e quello in cui il sito gli risponde passi meno tempo possibile. I sognatori sono suscettibili e il sito deve blandirli se vuole renderli felici, In fondo è la loro felicità a produrre i profitti del nostro cliente. Due secondi di attesa tra un tocco del dito e l’apparire di una foto possono già essere un problema. Se succede due volte di fila il sognatore si spazientisce e se ne va.
Se il sito rallenta, insomma, noi dobbiamo intervenire. Si accende un indicatore rosso sui nostri monitor e noi, ancora prima di capire cosa sta succedendo e perché, attiviamo nuovi server, duplichiamo fasci di connessioni, fermiamo elaborazioni batch, apriamo canali addizionali, ci appoggiamo a Francoforte o a Dublino, avvisiamo il centro di supporto clienti perché si prepari a ricevere lamentele. Senza muoverci da qui, usando solo le nostre tastiere, ma tutto deve essere fatto in fretta. Per questo siamo qui in quattro ad ogni ora del giorno e della notte.
Il contratto con il cliente parla chiaro in termini di penali: la differenza tra uno e cinque minuti di rallentamento può costarci milioni; più di cinque minuti significherebbe la catastrofe.
Io non ho più un ruolo tecnico, da tanti anni, e non dovrei fare parte delle squadre che si alternano in questo buco ma ogni tanto mi ci inserisco. La cosa ha diversi vantaggi, anche se alcuni sono discutibili. Mantieni l’aura di tecnico che ti fa sentire adorato dai tuoi, perché loro dividono il mondo in chi conosce il proprio lavoro e e chi sfrutta quelli che lo conoscono; le aggiungi, con un poco di demagogia, quella del capo attento alle condizioni in cui si lavora, anche se poi non fai niente per cambiarle. E poi conosci meglio le persone. Capisci quelli che funzionano e quelli che non ce la faranno mai. Quelli che un giorno saranno al tuo posto e quelli che verranno prima o poi mandati via.
Nei turni di notte che l’immaginario trasforma, per renderli più sopportabili, in occasioni di trasgressione alzando di molto le soglie del politicamente ed aziendalmente corretto, vedi nascere o finire un amore o magari solo intuisci che al mattino quei due andranno a dormire insieme, e aggiungi un altro piccolo frammento di informazione a quello che sai dei tuoi.
Quella notte non fummo fortunati. Maria, che ha venticinque anni ma ascolta solo gli Smiths, fu la prima ad accorgersene. “Il sito non risponde”, sussurrò interrompendosi nel mezzo di una tirata sul tradimento di Morrissey. Strizzò gli occhi fissando il monitor. Tutti la guardavamo. “È strano, sembra che la connessione sia intermittente. Ogni cinque secondi si ferma per due.” Dario, il nuovo arrivato, cominciò a tappettare sulla sua tastiera. “Siamo appena sotto la soglia per le penali. Ma qualcosa non sta funzionando, è come se qualcuno stesse leggendo dei dati ma a piccoli pezzi, per non farsi notare.”
Ada era la supervisor del gruppo e aveva lavorato con me per qualche anno, avevamo anche cercato di uscire insieme qualche volta prima che lei decidesse che non ero il suo tipo. “Guardate qui”, disse. In un secondo fummo alle sue spalle. Il monitor mostrava una barra gialla che oscillava violentemente. “Stanno copiando tutto il database dei clienti con transazioni, nomi, cognomi, numeri di conto, richieste e preferenze.”
“Tiriamo giù il sito” dissi io. Ada mi guardò storto: “ormai è tardi, servirebbe solo a peggiorare le cose e ad attirare l’attenzione. A quest’ora nessuno si sarà accorto della lentezza. Facciamo finta di niente”. “Chi sta copiando i dati?” chiesi. Giorgio iniziò ad imprecare e gli altri andarono a guardare il suo schermo. “Non ci crederai” disse Ada, “ma è l’ufficio di Londra del cliente. Siamo in pratica noi stessi.”
Non era una buona notizia. Quei dati non dovevano muoversi da dove erano. Non erano del cliente, erano di chi li aveva inseriti. Copiarli era illegale, e lasciarli copiare senza dire nulla era peggio che illegale, era immorale, anche a farlo era chi ci pagava. Passammo le due ore successive a scrivere un documento che spiegava cosa era successo, con immagini dei video, indirizzi dei computer che avevano effettuato la copia, una descrizione puntigliosa, minuto per minuto, di quello che avevamo visto. La salvai su una mia partizione privata e chiesi agli altri di dimenticarsi della cosa per qualche ora. Alle otto arrivarono i quattro colleghi del turno successivo, li salutammo senza dirgli nulla e uscimmo.
Ottavio Bossani era il mio capo e, per quanto temessi il peggio, dovevo passare da lui. Lo intercettai nei garage dell’ufficio prima delle nove. Non c’era posto migliore per parlargli. “Dimentica quello che hai visto, Aldo” mi disse, dopo che in due minuti gli avevo raccontato quello che era successo, “stanno cercando di fare un accordo con una azienda americana e gli devono fare vedere la qualità dei dati che hanno e non solo, devono lasciarglieli usare per qualche mese.”
“Ma è illegale, ora quei dati possono essere usati per rubare o per ricattare, non è solo un problema di marketing!”
“Dimentica”, ripeté, “questi sono dei coglioni e fanno le cose come dei dilettanti, ma per fortuna c’eri tu quando è successo. Se fanno l’accordo con gli americani anche noi raddoppieremo il fatturato. E con il tuo documento in mano siamo sicuri che non cercheranno di sostituirci con qualcun altro.”
“Quindi noi ricattiamo loro che a loro volta possono ricattare decine di migliaia dei loro clienti? Ottavio, io questo non posso farlo, è un crimine penale. E quei tre ragazzi non possono finirci di mezzo. Io non ci sto.”
Bossani mi guardò stupito, poi mi sorprese: “Hai ragione, chiama il nostro legale e andate insieme alla polizia postale. Vediamo cosa succede.”
Successe un finimondo; era il primo caso in Europa in cui una azienda di qualche fama era stata presa con le mani del sacco a fare porcherie con i dati, ad usarli per scopi non consentiti e non dichiarati. Tutti sapevano che succedeva, ma nessuno era mai stato condannato. In quindici giorni, il tempo che le carte dell’indagine impiegarono ad essere passate a un giornalista, diventammo i paladini della trasparenza e della integrità; e Bossani fu chiamato a presiedere una commissione europea creata apposta, con tanto di titolo e foto sul “Financial Times”. Centinaia di aziende, terrorizzate, vennero a chiederci di aiutarle a mettersi in regola e la filiale italiana per due anni fu la migliore del mondo; io ebbi la mia piccola promozione mentre Ada, Dario e Maria ne ebbero una molto vistosa, il mio modo di ringraziarli.
Il nostro cliente di quella notte non fallì, però. I suoi manager furono cacciati, come in un sacrificio rituale per esorcizzare i giornalisti e i politici che gli gridavano contro, ma tutto il resto venne incorporato, a prezzo di saldo, all’azienda americana a cui Ottavio mi aveva accennato nella nostra conversazione nel garage.
A noi arrivò dagli americani un contratto incredibilmente generoso per gestire l’integrazione. Il nostro premio per il tradimento.
Era sempre più difficile non fare compromessi. Alla purezza avevo già rinunciato da molto, ma speravo di riuscire a rimanere diverso. A non diventare quello che faceva agli altri quello che non avrebbe voluto fosse fatto a lui. Ad avere buone ragioni per continuare a giustificarmi dicendo che senza di me l’azienda sarebbe stata peggio, molto peggio. A inventarmi piccole correzioni che mi permettessero di dire che stavo cambiando le cose da dentro.
Ci provavo, ma i cambiamenti che riuscivo a fare erano sempre più impercettibili. Una promozione in più. Un licenziamento in meno. Una piccola battaglia vinta per obbligare i padri a prendersi cura dei propri figli appena nati, almeno per qualche giorno. E ognuna di queste correzioni mi costava altre bugie, altri sotterfugi.
A fin di bene, mi dicevo, ma la realtà era che più il tempo passava più mi uniformavo, diventavo come gli altri.
9 – Board room
La stanza era immersa in una luce complessa creata dalla interferenza dei raggi del sole, ormai basso sopra la grande navata della Stazione Centrale, con i raggi proiettati dalla doppia fila di lampade al neon poste ad ovale, una concentrica all’altra. Esattamente sotto le lampade, con la stessa forma ovale, stava l’enorme tavolo di mogano chiaro, sciccosamente opaco e arricchito da un motivo geometrico di intarsi di teak raffiguranti intricate spirali che sembravano rappresentare l’unica concessione al non contemporaneo.
Lungo le due pareti lunghe, a complicare quella luminosità a suo modo solenne, tre grandi televisori per lato, sistemati a distanza regolare l’uno dall’altro, mostravano tutti la stessa foto con il Duomo di Milano e il logo aziendale di fianco, e tutti erano afflitti dallo stesso leggero sfarfallamento dell’immagine.
Sul lato corto, opposto alla grande finestra affacciata sulla città, un tavolo su cui erano allineati una dozzina di tazze e piattini scintillanti di bianco e quattro thermos d’alluminio con manici e cappucci di bachelite nera.
Di fianco al tavolo, la porta da cui eravamo appena entrati e, nella cornice della porta, in piedi, Arrigo, il segretario di Ottavio Bossani, il capo del gruppo di manager pronti a riunirsi. Era una nuova tendenza quella di avere segretari maschi, e noi non ci eravamo fatti sfuggire l’opportunità di cavalcarla, come se fosse potuta bastare a trasformarci in un’azienda meno convenzionale.
Nella stanza, sulle sedie di alluminio satinato e pelle nera disposte intorno all’ovale di mogano, disegnate da Osvaldo Borsani e che Ottavio aveva voluto acquistare solo in onore all’assonanza dei loro nomi, eravamo seduti in dodici. Dodici completi monopetto tra il grigio chiaro e il fumo di Londra. Le camicie erano divise equamente tra sei azzurri Oxford e sei bianchi, colletti rigorosamente italiani. Dodici scarpe nere, stringate, inglesi, cinque con la punta traforata e una linea dritta come decoro, quattro con due ali di rondine in punta, tre senza nessun fregio a disturbare lo scintillio della pelle ben lucidata.
Solo le cravatte ci distinguevano, grazie al genio di Hermes a cui tutti eravamo ricorsi per differenziarci ma non troppo: le lumachine sul prato verde, i piccoli ombrelli su un cielo di pioggia, le nuvolette bianche su sfondo blu e le nuvolette grigie su sfondo rosso, cuccioli d’elefante con eucalipti e giovani coccodrilli nelle paludi. Una gara continua a dimostrare il nostro vitale anticonformismo.
Arrigo, che quel giorno mostrava al mondo una nuova fantasia di funghetti nel bosco, uscì dalla stanza chiudendo la porta, le cravatte ebbero un sussulto e i dodici monopetti si animarono.
Il leadership team prese il volo.
“Siamo nella merda” fu l’esordio di Bossani. “Cazzo, abbiamo perso tre gare nell’ultimo mese e a questo punto il budget possiamo anche mettercelo in quel posto. Tre gare perse e voi siete stati a guardare. Hoist mi ha chiamato e mi ha fatto capire che se non recuperiamo subito siamo fottuti.”
Hoist era il responsabile Europeo, che Bossani quando era in buona definiva un coglione, ma che nonostante il disprezzo restava comunque il suo capo. Un tedesco segaligno e perlopiù silenzioso, con un inglese perfetto che metteva a dura prova l’ego di Bossani, impossibilitato ad affrancarsi da un eloquio che ricordava Alberto Sordi. E Hoist non era quella che si dice una brava persona, comandava con il terrore e aveva licenziato sui due piedi più di un country manager per non avere raggiunto il budget per due trimestri consecutivi.
Bossani era davvero preoccupato. Continuò: “Prima che Hoist fotta me, saltate voi. Quindi se non volete trovarvi per strada cerchiamo di evitarlo. E per evitarlo c’è un solo modo. Ognuno di voi deve portare dieci milioni di profitti in più in questo trimestre. Più ricavi, meno costi, non mi interessa come ma voglio dieci milioni da ognuno di voi. Sentiamo le idee”.
Il sole aveva lasciato la board room, era rimasta solo la luce degli ovali di neon. I televisori non sfarfallavano più, forse si erano scaldati. Nell’enorme slargo davanti alla stazione potevo vedere centinaia di persone che camminavano frenetiche in ogni direzione, indifferenti a quello che stava succedendo nella stanza dove invece l’immobilità era assoluta. Eravamo tutti nel panico, nessuno si era preparato a questo; i miei pensieri sbandavano, oscillavano tra diverse strategie senza che nessuna prevalesse. Prendere tempo, inventare una scusa, promettere qualcosa che sapevo non si sarebbe realizzato. Per trenta secondi fui catapultato in quarta ginnasio di fronte alla prima interrogazione di greco non programmata.
Poi il monopetto alla destra di Bossani si schiarì la voce. Carlo Mentano: nessuno si stupì che fosse lui a parlare, lo chiamavamo “il democristiano” per la sua capacità di non contrastare mai nessuno frontalmente, comportarsi come il primo della classe e pugnalare alle spalle.
“Posso parlare con il nostro concorrente principale, quelli che hanno vinto due delle tre gare che abbiamo perso. Loro devono comunque trovare le persone per quei progetti e io gli posso offrire le mie. Capiranno che siamo disperati ma non si negheranno, sanno che prima o poi avranno bisogno di noi. Solo, ce lo faranno pagare con gli interessi, chiedendoci un favore ancora più grande tra qualche mese. Il trucco alla fine ci costerà almeno due milioni, ma in questo trimestre sembrerà una cosa positiva.”
Bossani si accese.
“Bravo Carlo, quando c’è un casino da risolvere hai sempre una buona idea. Il trimestre prossimo poi vedremo che cazzo fare. Altre idee?” Guardava di fronte a sé, verso il mio lato del tavolo.
Il secondo monopetto alla mia sinistra era Stefano Arcozzi, non l’avevo mai conosciuto bene ma per Simone era uno dei pochi manager su cui non girassero storie oscure. Aveva il volto torvo e tirato, si capiva che qualcosa non andava. Era chiaramente a disagio, ma trovò lo spirito per parlare.
“Io non credo sia l’approccio giusto. Non possiamo inventarci così sui due piedi una soluzione, c’è bisogno di più tempo e comunque dieci milioni sono troppi, non c’è un modo per me di f…”
La voce di Bossani salì di tre ottave.
“Arcozzi, che cazzo dici. Non ti ho chiesto se si può fare o no. Ti ho ordinato di farlo. Mi hai sfinito con i tuoi dubbi, avrei dovuto cacciarti già un anno fa quando ti sei rifiutato di anticipare una commessa per paura di essere rimproverato dagli auditor. Sei fuori, non posso fidarmi di te, fuori dai coglioni.”
Mentre Arcozzi si alzava in silenzio, Ottavio si girò verso di me: “Aldo, da ora la business unit di Stefano riporta a te.” Arcozzi uscì, la tensione sul suo viso si era trasformata in qualcosa che sembrava un sorriso, e Ottavio continuò. “Hai qualche idea?”
Non ne avevo, ma non potevo permettermi di non averne. Quindi inventai. Sulla pelle degli altri.
“Ho bisogno di un poco di tempo per i dettagli. Ma ho sentito che il gruppo di Arcozzi ha un sacco di persone ferme. Sono in mille in tutto, se ipotizziamo che duecento siano ferme, più altre cento, centoventi di cui sicuramente possiamo fare a meno unendo le due business unit, sono trecentoventi persone. A centomila euro in media l’anno, calcolando stipendi, bonus, tasse, contributi eccetera, risparmiamo trentadue milioni l’anno, otto in questo trimestre. Non sono i dieci che hai chiesto, ma ci andiamo vicini. Certo, mandarne via trecento e passa di colpo ci costerà qualcosa ma sono oneri straordinari, e poi a Hoist piace sempre quando facciamo queste operazioni.”
Scese il silenzio, e fuori era diventato buio. Snocciolare numeri così faceva sempre impressione, gli altri dieci monopetti stavano rifacendo mentalmente i miei conti; trecentoventi licenziamenti erano sempre una notizia, al di là del piacere sadico di Hoist.
Ottavio non stava contando, mi conosceva e sapeva che con le moltiplicazioni ero bravo. Stava pesando mentalmente se il rischio di essere cacciato valesse il sacrificio di doversi astenere per qualche mese dall’andare per convegni a magnificare il suo personale contributo all’occupazione in Italia. Pensava alle sue ville. Alla sua scuderia di cavalli da salto nel Monferrato.
“Va bene Aldo, ma inventiamoci internamente che è un’operazione fatta per crescere. E gettiamo tutta la merda su Arcozzi, facciamo capire che aveva fatto qualcosa di male, stando nel vago. Quando si è in queste situazioni si deve fare così: ranza, ranza, ranza!”
Il grido di guerra di Bossani fu l’ultima cosa che sentì davvero, il resto della riunione mi scivolò addosso. Avevo salvato i miei, avevo salvato me stesso, dovevo cacciare trecentoventi persone solo perché non erano mie. Uscimmo dalla sala riunioni che era quasi notte. Mandai un messaggio a Simone, lo avvisavo che avremmo avuto da fare.
Sapevo che avrei dovuto sentirmi molto peggio di così.
Visto che la nostra azienda era una famiglia, per giunta disfunzionale e molto grande, era del tutto normale che ondate di pettegolezzi ci attraversassero senza trovare ostacoli. Erano parte del sistema informale di comunicazione interna, affiancavano i canali ufficiali, qualche volta addirittura incoraggiate e generate appositamente, come folate di disinformazione che potevano aiutare a raggiungere fini specifici.
I pettegolezzi si potevano dividere in tre categorie principali. La più semplice era quella delle storie di letto. Chi stava con chi, chi voleva stare con chi. Ricalcava le dinamiche di una normale classe mista in seconda media, ma su scala molto più ampia; a me erano stati attribuiti almeno cinque flirt, in quegli anni, ed erano quelli di cui ero venuto a conoscenza. E uno solo era reale, anche se purtroppo non aveva fatto passi avanti; il mio tenere letteralmente gli occhi fissi su Orietta in quella gita aziendale non era passato inosservato. Questa categoria era abbastanza innocua, una delle cose che rendevano l’Italia diversa dalle altre sedi era che difficilmente le carriere si rovinavano per motivi di letto, dovevano essere molto seri e il pettegolezzo non bastava nemmeno a generare un avvertimento. In altri paesi, invece, relazioni anche innocue ma consumate o con soldi o in proprietà aziendali erano state sufficienti a causare licenziamenti immediati.
La seconda categoria era quelle delle storie di carriera. Chi sarebbe andato dove, chi avrebbe preso il posto di chi e, soprattutto, perché. Simile alla prima, ma molto meno romantica. E in questa categoria la manipolazione era all’ordine del giorno. Anche io, per provare la fedeltà dei miei collaboratori, confidavo ad ognuno, chiedendo assoluta e totale riservatezza, una voce diversa. “Credo proprio che Hoist si stia orientando su … per prendere il ruolo di capo divisione”, e ognuno riceveva un nome differente. Quei nomi poi volavano sulle ali del pettegolezzo e, quando tornavano a me, identificavano chi non era in grado di tenere la bocca chiusa. Solo Simone non ci era mai cascato, ma lui conosceva il trucco da tempo.
L’ultimo gruppo era quello delle storie di paura. Le riorganizzazioni, i licenziamenti di massa, le chiusure. Anche queste, spesso, venivano messe in giro ad arte, magari in forma edulcorata, per preparare le persone al peggio. Quando una storia di queste circolava, almeno un poco di verità c’era sempre.
E i più previdenti cercavano di trarne vantaggio.
10 – Le cattive notizie viaggiano veloci
Nicola: Ciao sono Nicola, buona sera a tutti
Michael: Ciao sono Michael, buona sera a voi
Clara: Michael, è ora di pranzo per te!
Michael: Ciao Clara, sì in effetti per me è proprio ora di pranzo. Aspetta che accendo la telecamera
Clara: Che bello! Ma cosa è, risotto?
Kim: Salve a tutti, sono Kim, di che risotto state parlando?
Michael: No Clara no non è risotto, è quinoa con kale scottato, semi di chia e una riduzione di tè verde. Oggi è la mia giornata power food.
Nicola: Grazie Michael, poi non mandarci la ricetta. E hai un po’ di quinoa nella barba. Ci siamo tutti?
Kim: Manca Karen, è online ma non mi risponde.
Nicola: Cominciamo intanto. Clara hai preparato il riepilogo dei progetti come ti avevo chiesto?
Clara: Sì certo, lo sto condividendo. Quella che vedete nella prima slide è la lista di tutti i progetti in cui stiamo perdendo soldi, ordinata per…
Michael: Clara, noi vediamo la tua faccia e anche il bicchiere di rosso che hai di fianco al computer, devi condividere la presentazione
Clara: Ma l’ho fatto. Aspettate che mi stacco e mi riattacco
Kim: Ho trovato Karen, non aveva capito che la call era oggi e si stava lavando i capelli dopo la palestra ma ora si sta connettendo
Clara: Ora vedete?
Nicola: Vediamo sempre te, e grazie per avere fatto sparire il vino, ma non era quello il problema. Ogni volta questa storia. Mandami la presentazione per mail, che la condivido io.
Karen: Ciao a tutti, eccomi scusate il ritardo. Avete sentito la novità?
Michael: Ciao Karen, quale novità?
Karen: Cacciano seicento persone nella business unit di Arcozzi. E Arcozzi è già fuori.
Nicola: Karen, tu come lo sai?
Michael: Merda, seicento persone
Karen: La segretaria di Arcozzi era a yoga con me questo pomeriggio, lei la tengono perché sa troppe cose
Nicola: Non credo sia una fonte attendibile
Kim: Nicola, ma allora non è vero?
Nicola: Non ho detto che non è vero, solo che non è una notizia confermata
Michael: Ma quindi tu lo sai
Nicola: Fino a quando non è confermata non posso dire niente. Ma non seicento, credo.
Clara: Nicola, ecco ti ho mandato la presentazione. Non vi sentivo mentre parlavate, avevo schiacciato per sbaglio il volume delle cuffie. Puoi condividerla.
Karen: Clara, licenziano seicento persone di Arcozzi
Nicola: Kim, non è così, ho detto che non è confermato
Clara: … no, non può essere, nella unit di Arcozzi?
Michael: Sì, e di colpo, e Arcozzi è già andato a casa
Karen: A me l’ha detto la segretaria di Arcozzi, quindi è sicuro
Nicola: Vi ho detto che non è confermato
Kim: Ma tuo marito non lavora lì Clara?
Clara: Io non ci posso credere, scusatemi devo chiamare subito mio marito
Nicola: Aspetta! Non c’è niente di certo. Clara…
Kim: Si è disconnessa
Nicola: Cazzo, certo che un poco di delicatezza
Karen: Scusate, io non sapevo che il marito…
Michael: Ma allora è vero?
Nicola: Qualcosa di vero c’è di certo, ma ora discutiamo dei progetti. Vedete la presentazione?
Kim: Si ora la vediamo, ma perché li cacciano?
Nicola: La voce è che Arcozzi avesse creato nel suo gruppo l’equivalente di una banda di rapinatori
Karen: Cioè?
Nicola: Per ogni progetto che facevano nascondevano dei fondi in modo da crearsi una riserva per i tempi difficili. E non lo facevano solo i capi progetto, ma anche i team leader, per questo ne cacciano così tanti
Michael: Pazzesco
Nicola: Ma non è detto che sia vero, non c’è niente di confermato. L’ho sentito perché Mentano lo diceva al telefono nella stanza di fianco alla mia questa mattina. Qui si sente tutto.
Kim: Se lo diceva Mentano deve essere vero. Chi prende il posto di Arcozzi?
Karen: La segretaria a yoga mi ha detto Pastore. Non sembrava granché quando è arrivato, sempre un poco per i cazzi suoi, ma sta facendo carriera.
Michael: Avrà scoperto lui quello che stava facendo Arcozzi, l’avranno premiato per quello
Nicola: Io credo, se tutte queste cose saranno confermate, che sia una operazione fatta per farci crescere più velocemente: lasciare zavorra per potere accelerare…
Kim: Nicola, non voglio offenderti ma che cazzo dici, parla della zavorra al marito di Cla…
Clara: Ciao a tutti grazie per avermi aspettata. Ho parlato con mio marito, lui non è nei seicento.
Karen: Meno male! Sono proprio contenta per voi
Clara: Ero sconvolta ma ora che so che lui non è nella lista sono ok. Nicola sei riuscito a condividere la presentazione, grazie! Cominciamo?
Nicola: …aspettate mi sta pingando Mentano
….
Nicola: …devo staccarmi, hanno convocato immediatamente una call con tutti i direttori… forse sarà per annunciare i licenziamenti… mi raccomando, fino a che non c’è una conferma voi non parlate con nessuno di questa discussione. Ciao a tutti, buona serata.
Clara: Va bene Nicola, nessun problema, vi mando la mail con il riepilogo dei progetti e potete commentarlo offline.
Michael: Perfetto, la aspetto, buona serata a tutti
Karen: Ciao Michael, ora puoi andare finire la tua quinoa. Ciao a tutti!
Michael: Ciao
Nicola: Ciao
Karen: Ciao
….
Clara: (lontana, parla al cellulare) Eccomi amore, finalmente quella call del cazzo è finita ma almeno questa volta è servita a qualcosa. Passare la lista di chi scopa con chi all’HR di Pastore è servito a qualcosa, si sa che lui controlla tutto. A dopo, baci baci baci…
Kim: Ciao, Clara
Bossani non era per nulla stupido, quindi aveva sempre diffidato di me, annusando la mia reticenza. Mi tollerava, perché in fondo non gli avevo mai creato problemi, ma non mi considerava davvero uno dei suoi, anche se ormai lavoravo per lui da qualche anno. Per lui restavo qualcuno che poteva sostituire senza remore, soprattutto se ne avesse avuto bisogno per fare posto a uno dei suoi fedelissimi.
Ma la mia iniziativa di mandare via trecento persone l’aveva ammorbidito. Lui l’aveva letta come un’abile mossa per annettermi una divisione e avere più potere, non aveva proprio considerato che la mia vera motivazione fosse quella di salvare le mie persone. A dire il vero anche io mi chiedevo quale fosse stata, la mia vera motivazione.
Alla fine, comunque, le persone le avevamo dovute mandare via, io e Simone chiusi in una stanza. Arrivavano una ad una, dieci al giorno, mezz’ora per ognuno, una lunga processione che era durata due mesi e che ci aveva tolto ogni energia. Non mi ero mai sentito così male, e la decisone di essere io personalmente a dare la notizia, a parlare con ognuno, era la pena del contrappasso che mi ero autoinflitto, mascherata dal principio eroico di “metterci la faccia”.
Nell’illusione che ai ragazzi e alle ragazze che venivano nell’ufficio facesse una differenza sentirselo dire da me o da un burocrate qualunque. O forse si, forse per loro era importante avere qualcuno di visibile con cui prendersela, qualcuno che rappresentasse l’azienda e che si potessero ricordare di odiare, per sempre. Ecco, ero diventato l’azienda.
In quel periodo quindi, dopo avere mandato via trecento persone che non avevano fatto nulla di male, ero molto poco incline a perdonare l’inefficienza, o la semplice inettitudine.
11 – Pruzzetti
Sopportare gli incompetenti stava diventando sempre più difficile. Era appena arrivata una mail da Camillo Pruzzetti, un ragazzo appena assunto e che Orietta aveva decretato essere il mio responsabile personale della comunicazione. Slavato, poco significativo, aveva lavorato per noi come stagista nell’agenzia che ci segue e per tre anni nessuno l’aveva mai notato, poi Orietta aveva deciso che avevo bisogno di qualcuno dedicato a me, e come mi succedeva sempre più spesso non ero riuscito a dirle di no.
Ero convinto che l’avesse assunto in cambio di qualche favore particolare chiesto all’agenzia; negli ultimi due mesi il nostro marketing era riuscito a farci comparire tre volte sulle pagine economiche del “Corriere della Sera” e di “la Repubblica”, e due volte su tre Bossani veniva ritratto come un moderno principe illuminato. Questa benevolenza non capita mai per caso, soprattutto considerando che di illuminato Bossani non aveva nulla. O noi o l’agenzia avevamo promesso qualcosa a qualcuno, e il mio sospetto era che l’avere assunto Pruzzetti in pianta stabile dopo anni di precariato fosse stato parte della trattativa.
La mail di Pruzzetti era lunga, troppo lunga, e questo costituiva già un enorme difetto. Mi spiegava prolissamente come una mia intervista fatta per un giornale tecnico, uno di quelli che comunque vengono letti solo da elfi e puffi e quindi non importano a nessuno al di fuori dei boschi, non fosse riuscita alla perfezione. Sembrava che la giornalista avesse travisato le mie parole, che lui si fosse prodigato, senza riuscirci, nel tentativo di correggere il testo in meglio, che ci fosse stata addirittura quasi una lite tra lui e lei e che comunque, alla fine, non fossimo emersi come gli innovatori che sempre cerchiamo di far credere di essere.
Era un lungo preambolo con tutta una infinita serie di giustificazioni e di spiegazioni, non richieste perché in realtà a nessuno importava nulla di quell’intervista. Pruzzetti riportava in dettaglio gli argomenti che aveva usato per convincere la giornalista, le risposte negative ricevute, le sue insistenze. Un pedante, e un pedante fallimentare.
In calce alla mail, finalmente, l’articolo. Visto che ero arrivato fino a lì, tanto valeva finire di leggere. Decine di righe piene di locuzioni generiche, frasi fatte, gergo italo-inglese, ovvietà. Tutto l’armamentario concettuale che il marketing del nostro settore aveva affastellato in trent’anni cercando di dare nomi nuovi a concetti vecchi. Innovazione fluida, lavoro agile, debito tecnologico… il paradiso della sinestesia.
Poi, a tre righe dalla fine, a seguire un mio commento in cui raccontavo tutto ciò che facevamo di meraviglioso per “il benessere delle nostre persone che sono il nostro asset più importante…” la giornalista lasciava cadere con disinvoltura che la nostra azienda era stata condannata da un giudice del lavoro per tre casi di mobbing in cui aveva dovuto reintegrare i dipendenti e pagare risarcimenti milionari.
Ero rimasto a bocca aperta.
Non era vero, ne ero certo e immaginavo anche perché la giornalista si fosse confusa e l’avesse scritto. Qualche giorno prima era uscita una notizia su un blog di tecnologia americano che raccontava di una sentenza per mobbing in Svezia in cui un’azienda locale era stata effettivamente condannata. Il nome dell’azienda non diceva nulla a nessuno al di fuori dalla Svezia e così nell’articolo, per fare capire meglio al loro pubblico di che industria si stava parlando, l’avevano definita come una nostra concorrente. Sarebbe stato meglio che il nostro nome non fosse comparso ma il testo era chiaro e nessuna persona ragionevole ci avrebbe associato al mobbing. Ma la giornalista non era ragionevole, e più o meno consciamente aveva connesso le tre cose, il mobbing, il nostro nome sull’articolo che parlava di mobbing, le mie parole che trasudavano amore per i nostri dipendenti. E aveva pensato di sistemarci per le feste.
Ma la veridicità non era nemmeno il problema principale. Quella frase, anche se compariva su un giornale con una diffusione infinitesimale, sarebbe stata raccolta dai software che creano le rassegne stampa. La parola “mobbing” la avrebbe catapultata per rilevanza in cima a quelle stesse rassegne e sarebbe stata letta da decine di migliaia di amministratori delegati che per abitudine e noia le leggono, normalmente fermandosi alla prima pagina. E a quel punto il danno sarebbe stato fatto. Anche se la notizia era completamente falsa, anche se la rivista avesse ammesso immediatamente di avere commesso un errore, anche se un giudice avesse condannato la stolta a pagarci un indennizzo. Saremmo rimasti per qualche anno, nella mente di tutti, quelli che erano stati condannati per mobbing. Anche se non era “vero” l’immagine di Bossani sarebbe rimasta macchiata, per non parlare della mia, gettata nell’immondizia per l’associazione con l’articolo.
E quella frase, quell’incompetente di Pruzzetti non l’aveva nemmeno vista. Si era perso a dissezionare dettagli insignificanti e aveva completamente ignorato la singola frase che avrebbe posto fine alla sua carriera e a quella della giornalista.
Ho chiamato Orietta, che ha impiegato due secondi a capire cosa fosse successo. Si è mossa veloce, ha telefonato all’editore, non ha urlato ma ha detto le parole giuste: danno, querela, chiusura, velocità.
L’editore l’ha richiamata dopo cinque minuti. Il pezzo, che era già sul sito internet, era stato rimosso. La rivista sarebbe uscita nelle edicole con un giorno di ritardo e senza quella frase.
Orietta non l’ha ringraziato, non ancora, non sapevamo ancora se l’articolo sarebbe comparso nelle rassegne stampa o no, nessuno sa esattamente il momento esatto in cui i programmi software scandiscono internet per trovare i materiali.
Le rassegne stampa, che una volta arrivavano negli uffici via fax in mattinata, ora arrivano per posta elettronica intorno alla mezzanotte, appena dopo la chiusura delle redazioni dei quotidiani.
Fino ad allora eravamo impotenti, potevamo solo aspettare. Fare pubblicare adesso una smentita sarebbe servito solo ad attrarre l’attenzione.
Orietta ha convocato Pruzzetti nella stanza. Ora invece stava urlando. Urlava così forte che Pruzzetti si è messo a piangere. Ma non le bastava, aveva completamente perso il controllo, lo malediva per le generazioni a venire, aveva gli occhi affessurati, gli zigomi incandescenti e i capelli di Medea. Pruzzetti ne uscì in cenere, ero convinto che non lo avremmo mai più rivisto. Lentamente, Orietta ritornava normale.
Decidemmo di non avvisare Bossani o il suo ufficio stampa, non sarebbe cambiato nulla e probabilmente ci avrebbero cacciato anche solo per avergli fatto correre il rischio di essere sputtanati.
Erano le sei del pomeriggio e restare ad aspettare in ufficio mi sembrava insopportabile, così le proposi di fare un giro.
Siamo usciti dall’ufficio e abbiamo iniziato a camminare verso nord, attraversando i parcheggi di macchine e autobus intorno alla stazione; senza che io glielo avessi chiesto lei mi ha iniziato a spiegare, partendo da lontano come fosse una fiaba, perché Pruzzetti era entrato nella nostra azienda.
C’era una volta un giornalista di mezza età che aveva sempre frequentato la casa dei genitori di Orietta, anche loro giornalisti, qualche anno più grandi di lui. Uno di quegli amici di famiglia che fanno i regali di Natale ai bambini e che quando li vedi li chiami zii, che non ti sembra che abbiano una famiglia propria e quindi chiamarli zii potrebbe aiutarli a sopportarlo. Poi questo giornalista era diventato famoso, e aveva cominciato a vedersi meno spesso a casa loro. Un giorno Orietta, ormai quasi laureata, in un cinema del centro era entrata nei bagni e aveva visto sua madre contro il muro, il giornalista famoso schiacciato dentro di lei, come due ragazzini senza un posto dove farlo. Madre e figlia si erano guardate ma nessuno aveva detto nulla. Da quel giorno il giornalista famoso non si era mai più visto in casa ma aveva cominciato ad aiutare Orietta, che nel frattempo aveva iniziato a lavorare occupandosi di pubbliche relazioni e uffici stampa. Prima consigli spiccioli, poi lunghe colazioni in cui le parlava con tono paternalistico. Mai un’avance, per fortuna, ma sempre il disagio di ricordare la scena nel cinema e la sensazione, la certezza di essere legata a lui. Poi, quando la carriera di Orietta cominciava a prendere forma e ad estendersi al marketing, aiuti veri, contatti con altri famosi giornalisti che lei usava per ottenere interviste ai suoi capi che nessuno dei suoi colleghi avrebbe potuto ottenere, inviti a cena con intellettuali irraggiungibili e con i più prestigiosi pubblicitari italiani.
Era diventata per tutti la figlioccia di chi nell’infanzia aveva chiamato zio e che un giorno, forse inevitabilmente, le ha chiesto di fare da fata turchina a un suo figliastro vero, un figlio naturale avuto da una donna che aveva dimenticato ma che di cognome faceva Pruzzetti e che non era in grado di cavarsela da solo. Orietta non aveva battuto ciglio, aveva obbligato l’agenzia che lavorava per lei ad assumerlo, e poi quando l’agenzia le aveva detto che non riusciva più a rimediare a tutte le stronzate che faceva l’aveva assunto direttamente da noi, assegnandolo a me perché sapeva che l’avrei tenuto d’occhio.
Mentre pensavo con terrore che Pruzzetti nonostante la sfuriata di prima, avrei dovuto tenermelo per sempre, e con soddisfazione che se lo aveva appioppato a me era perché mi stimava, le ho chiesto cosa pensasse sua madre di tutto questo. Mi ha sorriso, mi ha detto che si vedeva che ero bravo ad ascoltare e che con sua madre non aveva mai più parlato da quel giorno al cinema, ma che del resto non si erano mai parlate molto nemmeno prima.
Orietta faceva sembrare tutto leggero, così le ho sfiorato la mano mentre scendevamo da un marciapiede per aggirare un’auto di traverso e lei mi ha preso le dita.
Eravamo arrivati alla fine della massicciata della stazione, non c’era nessuno in giro, ho preso a destra verso via Venini, c’era troppo silenzio e avevo bisogno di un sottofondo per raccontarle di me. L’ho trovato in una trattoria pugliese, ci siamo entrati che avevano appena aperto e ce ne siamo andati che era quasi mezzanotte, immaginandoci di sapere tutto l’uno dell’altra. Mentre camminavamo verso l’ufficio ci siamo ricordati del mobbing, delle rassegne stampa, di come eravamo arrivati a quel punto. L’ansia si era ripresa il suo spazio, ma le nostre mani erano rimaste intrecciate.
Arrivati sotto l’ufficio i nostri telefoni ci hanno mostrato le rassegne. Nulla di nulla. Eravamo salvi.
L’ho baciata sulle labbra e le ho sorriso. Mi ha baciato sulle labbra, è camminata via.
Scoprire le labbra di Orietta era stato un piacere inaspettato, ma non aveva portato quello che speravo. Passavamo insieme parecchio tempo, quasi sempre in ufficio, a volte uscivamo a mangiare a pranzo, ma era un tempo sospeso, il bacio era rimasto un bacio e non si era ripetuto. Io avrei voluto una relazione, lei sembrava volere un amico, o forse non voleva proprio nulla.
E mentre i giorni passavano, mi rendevo conto che nonostante la nostra sera di chiacchiere e di confessioni eravamo rimasti solo due colleghi, io non avevo nemmeno cominciato a spiegarle la mia ambivalenza e le mie dissonanze. Non capivo cosa pensasse di me, tranne che sapevo come farla sorridere con il mio sarcasmo aziendale. E visto che io ero pur sempre il suo capo mi guardavo bene dal prendere qualunque iniziativa. Era una relazione di parole, eravamo tutti e due bravi e ci divertivamo ad usarle, inchiodavamo i colleghi con soprannomi, sbeffeggiavamo le routine che ci sembravano più tristi o più inutili.
Poi arrivò un’emergenza. E mi fece scoprire che quando ci sono le crisi vere, quelle che segnano tutto il paese, o tutto il mondo, allora il mio ruolo, forse il ruolo di ognuno di noi, prende un senso diverso. I cazzeggi, le controversie quotidiane vengono cancellate, almeno per un po’, e si litiga per le cose importanti.
E nella crisi scoprivo anche che i ruoli che ci siamo assegnati, i cliché, possono riservarci sorprese, perché tutti cambiamo molto velocemente.
12 – Uncle Scrooge
Siamo tutti a casa. Io Bossani la Bergomi Mentano Simone. I ragazzi della reception. Quelli che ci aggiustano i computer. Le segretarie. Il leadership team. Siamo casa a Milano, a Sassari, a Napoli, a Roma, a Torino, a Padova. Non c’è più una persona in nessuno dei nostri uffici. Lavoriamo da casa.
Siamo a casa in dodicimila. A pensarci bene siamo a casa in cinquanta milioni, quasi tutti gli italiani sono chiusi in casa in attesa che passi l’epidemia, ma a me oggi, come in ogni giorno feriale, interessano i miei dodicimila.
La nostra nuova routine comincia alle otto del mattino. Davanti alla microscopica telecamera incastonata proprio a metà del bordo superiore dei nostri computer. Che non ci fa sconti. Ci riprende in grandangolo, ci imbruttisce rispetto alle piccole foto patinate che ci identificavano prima, prima che accendere la telecamera diventasse una questione di etichetta aziendale, e che ci mostravano più giovani, più sodi, più composti.
Alle otto – ogni mattina – comitato di crisi. I responsabili delle divisioni, e i loro capi del personale.
Bossani lo presiede, e ha la cravatta. I primi giorni l’avevamo quasi tutti, e le poche donne erano nel tailleur d’ordinanza, alle otto del mattino. Ora non si contano le tute, le t-shirt, i capelli sporchi e le barbe incerte. Bossani sembra non farci caso, ma non cede.
All’inizio, nei primi giorni della reclusione, le conversazioni erano vaghe e disordinate, sembravamo tutti epidemiologi e discettavamo di sintomi, di curve di crescita e di piani di evacuazione. Ora siamo più concentrati e le discussioni vertono tutte sul come andare avanti, e soprattutto su ciò che davvero sembra contare: chi paga.
Il comitato di crisi segue ormai uno schema fisso. Bossani ci chiede come stiamo e ci raccomanda di prenderci cura di noi e dei nostri team; in quei cinque minuti, sempre uguali, molti finiscono la colazione. Guardando bene le immagini si possono vedere masticazioni accennate e a volte si può intuire, fuori dall’inquadratura, il gesto dell’inzuppare il biscotto nel latte e poi una mano furtiva che porta qualcosa alla bocca.
Poi io e Mentano iniziamo con il bollettino di crisi. Quanti clienti ci hanno detto che il progetto è interrotto, con quanto preavviso, in che termini e con quanta brutalità; quante delle nostre persone da ieri si ritrovano senza un progetto su cui lavorare. Il numero è ogni giorno più alto, ormai sono più del trenta per cento.
“Aldo”, mi interrompe Bossani mentre sto raccontando di un cliente che ci ha dato zero giorni di preavviso e ci ha persino invitato esplicitamente a fargli causa, visto che tanto probabilmente la sua azienda non resisterà abbastanza a lungo da vederne gli esiti, “tu cosa faresti?”
Non è una domanda per le otto del mattino, non è una domanda a cui penso di poter dare una risposta sincera. Non è proprio una domanda per me. Ma qualcosa devo dire.
“O la paghiamo noi, o la pagano le nostre persone, o cerchiamo di fare a metà. Ma non credo che la decisione spetti a noi, cosa dice Hoist?”. Hoist, il temuto capo europeo, che non ha ancora fatto sentire la sua voce in questi giorni di crisi.
“Hoist ci lascia fare quello che vogliamo”, risponde Bossani, “credo che sia nel panico e non riesce a decidere nulla, quindi ci ha detto di fare come crediamo, anche se poi vorrà approvare tutto.”
“Allora paghiamola noi. Abbiamo fatto utili per vent’anni di fila, non abbiamo una lira di debito e così tanti soldi in cassa che potremmo pagare gli stipendi per due anni anche senza avere un cliente.”
È Simone che ha parlato, lui che di solito in queste riunioni con i grandi capi sta sempre zitto. Il mio capo del personale, l’unico con cui ogni tanto parlo del mio sentimento bipolare per il nostro lavoro. Le sue parole sono così dirette e così poco rispettose. Troppo dirette. C’è una liturgia specifica, e solo Bossani può dettare la linea con sicurezza, tutti gli altri devono proteggere le loro opinioni dal rischio di non essere quelle giuste usando circonlocuzioni complesse, periodi ipotetici e potenti dubitativi.
Simone, invece dei soliti congiuntivi e condizionali conditi di “se”, “considerato che”, “assumendo”, “nell’ipotesi”, “dipende”, “ma anche”, aveva usato l’indicativo.
Solo silenzio, per almeno venti secondi. Come se tutti si stessero interrogando sull’enormità di quello che è stato detto, e sulle conseguenze per il povero Simone. O forse tutti si aspettano la reazione di Bossani, ad alzo zero. Ma Bossani tace, e quindi le voci riprendono intensità, prima lentamente, poi accavallandosi alla ricerca di consenso. Volti cattivi, doppi menti, guance mal rasate.
“Dovremmo mettere tutti in cassa integrazione, paga lo stato…”
“No quelli che sono rimasti senza un cliente per cui lavorare devono consumare tutti i loro giorni di ferie a cominciare da…”
“Invece facciamo subito un contratto di solidarietà, si lavora tre giorni su cinque così ci si alterna sui clienti che sono rimasti…”
“Tutti quelli con i bambini piccoli possono prendere il congedo parentale facciamo lavorare solo gli altri…”
Andiamo avanti per quasi dieci minuti, si formano sciami di consenso effimero dietro all’una e all’altra posizione. C’è una finestra, sul computer, dove i partecipanti alla riunione possono scrivere commenti che tutti gli altri vedono, e dopo ogni intervento si affastellano scritte che dicono “giusto”, “d’accordo”, “più uno”. Nessuno aveva commentato le parole di Simone.
Non ci sono dissensi o critiche, ma è chiaro che il gruppo non ha una direzione se non quella di trovare il modo di far pagare la crisi a qualcun altro. Che la paghi lo stato o le nostre persone non sembra importare più di tanto, basta che non sia l’azienda a farlo; il nostro bonus da capi dipende dai suoi risultati, e quindi non fare pagare l’azienda vuole anche dire che non la pagheremo noi.
Io resto zitto, scambio qualche messaggio privato con Simone che ha capito l’impudenza della sua uscita, cerco di consolarlo ma sono preoccupato per lui, nessuno ha nemmeno preso in considerazione la sua proposta e io a questo punto non ho più il coraggio di sostenerlo.
Sono impotente ma sento anche che la mia fune interiore, quella che io cerco di ungere e oliare ogni giorno con i miei sforzi di essere obiettivo e rigoroso nel fare solo quello che credo sia giusto anche se il mio lavoro mi chiede di fare cose diverse, quella fune si sta per rompere.
Mi sento svuotato, e inutile, quando finalmente Bossani parla.
“Stiamo dicendo un sacco di cazzate. L’unico con un po’ di buonsenso è stato Simone. Se la facciamo pagare ai nostri ragazzi, non ce lo perdoneranno mai. Magari saremo gli unici a farlo, ma dobbiamo proteggerli, e pagare noi tutto il costo di questa epidemia. È un’occasione unica per essere diversi, le nostre persone ci adoreranno e non si parlerà che di noi. Usiamo le tasche gonfie della nostra azienda, e se questo vuol dire sgonfiare anche un poco le nostre, ce lo possiamo permettere. Quando finirà la crisi avremo raddoppiato la nostra quota di mercato. Lo vendo io a Hoist, non preoccupatevi.”
Simone mi manda una faccina con la bocca spalancata e un punto di domanda. Sul computer, nella finestra dei commenti, parte una gara ad applaudire. Io resto incredulo, Bossani mi ha spiazzato. Ha fatto la cosa giusta, anche per me. Domani ricominceremo ad essere stronzi, ma oggi anche io aggiungo il mio grazie tra i commenti, e per la prima volta sono sincero.
Il principale lascito tecnologico della grande emergenza era stata la consuetudine alle videoconferenze. L’uso del video era diventato immediatamente quasi obbligatorio, per non morire di noia quando si doveva parlare davanti al PC anche per dieci ore consecutive contemplando delle sigle o, peggio, delle microscopiche foto aziendali fatte magari vent’anni prima per essere stampate sui badge. Se qualcuno avesse spento il video si poteva essere certi che stesse mangiando, o che si fosse alzato magari per andare in bagno.
Dopo quattro settimane, conoscevamo ogni dettaglio dell’arredamento delle case dei nostri colleghi. Chi lavorava in verande vetrate vista mare e chi in uno studio di fortuna ricavato in una mansarda. Chi non aveva che un tinello e chi poteva cambiare stanza ogni ora. Le disparità sociali si stavano manifestando di pari passo con le composizioni dei nuclei familiari, ragazzini che sfrecciavano sullo sfondo, cani acciambellati di fianco ai loro padroni. Le vere famiglie stavano diventando parte integrante della mega famiglia aziendale.
Ma la tecnologia ci stava venendo in aiuto. Con il più grande progresso da anni, chi produceva i programmi per le videoconferenze aveva introdotto la possibilità di scegliere degli sfondi finti. La definitiva democratizzazione del ChromaKey.
All’inizio erano solo tre o quattro sfondi, una spiaggia, una montagna, un ufficio, una stanza spoglia tipo quella degli interrogatori. Poi sono cominciati i temi fantastici. Buck Rogers, il mago di Oz, il deposito di Paperone, la macchina dei Blues Brothers. Poi la possibilità di aggiungersi effetti speciali, tipo le orecchie da coniglio o una bombetta, o una parrucca di riccioli rossi.
E per ultimo, in un crescendo di anarchia, le foto personali. Ognuno poteva mettere come sfondo la foto che voleva. Chi si sovraimponeva a Darth Vader, chi a una giraffa nella savana. I più pavidi qualche paesaggio, baie, montagne. I più aggressivi punk, pornosoft, la cappella sistina, i loro figli travestiti da Halloween. Un delirio creativo, che movimentava le nostre conversazioni.
13 – Mascherine
Nicola: Ciao sono Nicola, buona sera a tutti
Michael: Ciao sono Michael, buona sera a voi
Clara: Michael, ma sei in una grotta?
Michael: Ciao Clara, ti piace il mio nuovo sfondo?
Clara: Che bello! Aspetta che metto il mio!
Kim: Salve a tutti, sono Kim, Clara perché hai di fianco Biancaneve?
Nicola: Scusate, se possiamo cominciare volevo parlare delle nuove procedure per mandare i consulenti dai clienti
Clara: Dai Nicola aspetta, ma quella è camera tua o è una foto?
Nicola: È camera mia, perché?
Clara: Mi sembrava strano - ma è davvero un poster di John Lennon che hai appeso al muro?
Nicola: Si Clara, ma se non ti piace posso sfocare lo sfondo. Kim ci aggiorni sulle procedure?
Kim: OK. Da lunedì prossimo per andare dai clienti tutti i consulenti devono avere la mascherina chirurgica. E i clienti devono assicurarci che i loro uffici siano sanificati e che non ci siano mai più di quattro persone ogni trenta metri quadrati
Michael: Ma questo non vale per l’America vero?
Kim: Vale per tutti
Michael: Ma noi qui non abbiamo né mascherine né guanti, non abbiamo nemmeno la carta igienica!
Clara: Michael ma se ci hai fatto vedere ieri che ne hai quattrocento rotoli
Michael: Si ma i consulenti non ce l’hanno, e comunque io non ho le mascherine da distribuire
Nicola: Puoi chiedere ai clienti se possono darle loro ai nostri ragazzi?
Michael: Non credo che nemmeno loro le abbiano
Clara: Ma come facciamo a sapere se i clienti poi rispettano le regole?
Kim: Gli chiediamo di autocertificarsi
Clara: Ma tu ti fideresti?
Kim: Beh, io…
Nicola: Non è questione di fidarsi, queste sono le procedure e le regole. Clara a Milano abbiamo le mascherine per tutti?
Clara: Ma dobbiamo dargliele noi?
Nicola: Se gli evitiamo la caccia al tesoro nelle farmacie magari li aiutiamo, non credi?
Clara: Boh non so. Poi devono passare dall’ufficio a prenderle….
Nicola: Clara le abbiamo o no? Ti avevo chiesto di procuratele tre settimane fa.
Kim: Mi sa che si è disconnessa. Se non le ha come facciamo?
Michael: Ma me ne potete spedire un po’?
Clara: Scusate mi si era impallato il PC
Kim: Forse era lo schermo di Biancaneve. Ma questa è camera tua con il letto sfatto?
Clara: No no è una foto che ho appena scaricato da Internet, ti piace?
Nicola: Clara, hai ordinato le mascherine?
Clara: Si, certo, ne sono arrivate cinquemila nell’ufficio di Milano
Nicola: Bene puoi spedirne mille all’ufficio di Michael?
Michael: Perché solo mille?
Kim: Michael, siete solo in cinquanta nel vostro ufficio, non fare come con la carta igienica
Clara: Va bene le spedisco. Ma Nicola puoi mettere uno sfondo? A me John Lennon anche sfocato mette tristezza
Nicola: (sospira) … fatto
Clara: Ma è bellissima è tua figlia?
Nicola: No Clara, è Camilla, mia moglie, lo sai che ha qualche anno meno di me, l’hai anche incontrata una volta
Clara: Scusa scusa scusa! Allora è tutto chiaro per le procedure?
Michael: No io non ho capito cosa facciamo se un cliente ci dice di andare e poi non rispetta le regole
Kim: Beh è semplice smettiamo di andarci
Michael: E non fatturiamo?
Kim: …
Clara: Certo che no, vero Nicola, è giusto, l’ha detto anche Bossani nella all-hands che ha fatto l’altro ieri: “la salute dei nostri dipendenti è il nostro valore più importante!” E avete visto come era in forma? Secondo me ha il lettino abbronzante e la sauna in casa.
Nicola: Intanto dobbiamo capire cosa vuol dire che il cliente non rispetta le regole. Se hanno tutti le mascherine va bene, non è che possiamo stare a misurare la densità delle persone, e cosa ne sappiamo se fanno la sanificazione…
Kim: Ma se qualcuno dei nostri rientra e si rifiuta di tornare dal cliente perché ci dice che non le rispettano?
Nicola: Allora mi fa il piacere di mettersi in ferie. Già non abbiamo licenziato nessuno e dovrebbero baciarsi i gomiti, se adesso si mettono a fare i preziosi per me possono anche andare affanculo. Se non vanno dal cliente si mettono in ferie, e poi facciamo i conti quando le finiscono.
Michael: Ma quindi “la salute dei nostri dipendenti…”?
Nicola: Michael non li mandiamo in un reparto infettivi, li mandiamo in degli uffici e a un certo punto devono fidarsi, se diventiamo tutti paranoici non ne usciamo più…
Kim: Però Nicola, noi lavoriamo da casa, Orietta del marketing ha detto che per i prossimi sei mesi non ci saranno più eventi in presenza ma solo virtuali, Bossani fa le videoconferenze dalla casa in montagna, Simone manda mail raccomandando di stare a casa….
Nicola: Kim se tu vuoi andare in ufficio puoi farlo e se vuoi tornare a fare la consulente dimmelo. Ma non mi rompere i coglioni con i tuoi sensi di colpa!
Clara: Scusa Nicola non voglio insistere anch’io ma ci sono dei ragazzi che devono lavorare su un progetto di realtà aumentata con i visori, come fanno? Quelle sono delle mascherone che devono mettersi in faccia a continuare a scambiarsele, altro che mascherine.
Nicola: Oddio non ne ho idea Clara, metteranno i visori nell’amuchina! Sentite, noi distribuiamo le mascherine e chiediamo ai clienti di giurarci che rispettano le procedure. Se qualcuno protesta, mandatelo da Simone che è abituato a gestirsi i rompicoglioni. E se non sono contenti andranno a lamentarsi da Pastore che lui è un’anima buona e vediamo cosa gli dice.
Michael: Ok Nicola non t’incazzare.
Nicola: Michael si che m’incazzo e togli quella cazzo di foto di sfondo. Non sei divertente.
Michael: Mi stupisco che non ti piacciano le miniere di carbone. Preferisci lo sfondo di Clara?
Nicola: Clara, anche tu, non mandiamo nessuno al mattatoio, dai vi prego smettetela. Non fatemi passare per lo stronzo, cosa dovrei fare?
Kim (con una foto di una fossa comune sullo sfondo, piena di bare allineate): Nicola, smetti di fare il fascista e dì quello che pensi davvero. Anzi no, lascia perdere. Ciao.
Michael: Ciao
Clara: Ciao
Nicola (ormai da solo, schiena al computer): Camilla, io non ce la faccio più. Potremo riuscire a vivere solo con il tuo stipendio per un po’?
Passata l’emergenza e passata la crisi la vita in azienda era ripresa apparentemente come prima.
C’era stata una lunghissima fase di incertezza in cui eravamo rimasti per più di un anno, senza sapere se saremmo sopravvissuti o no. Poi era diventato chiaro che ce l’avevamo fatta, anzi che Bossani aveva avuto ragione, eravamo diventati più forti di prima. Alcuni dei nostri concorrenti erano falliti e anche molti dei nostri clienti, ma altri clienti avevano preso il loro posto, e noi eravamo lì per loro.
Qualcosa era cambiato, non nell’organizzazione ma nelle nostre teste. Le conversazioni si erano fatte più radicali, sembrava che cercare compromessi fosse passato di moda, si decideva tutto in fretta e ci si incazzava per molto meno di prima. Probabilmente i primi mesi trascorsi in isolamento con la paura di morire, e poi i molti mesi in cui temevano di sparire, ci avevano resi tutti più vulnerabili ma ci avevano anche consumato tutta la pazienza.
Quello che non funzionava andava risolto, e molti trovavano il coraggio di affrontare problemi che altrimenti avrebbero lasciato languire, forse per sempre.
Nicola Cavallini si era licenziato nel pieno della crisi. Da un giorno all’altro, senza un altro lavoro, senza dire a nessuno perché.
Altri sembravano essere tornati ai loro vecchi ruoli senza cambiamenti apparenti, Bossani era sempre più pieno di sé e sembrava proiettato a prendere il posto di Hoist e a diventare il capo europeo.
Ma in qualcuno la crisi aveva innescato dei processi invisibili e incontrollabili.
14 - Amore Fragile
Non capivo perché Mentano continuasse a cercarmi. Non era mai stato particolarmente cordiale con me, non più di quanto il suo naturale status di maestro mediatore lo obbligasse ad essere. Era nell’organizzazione da sempre, ed era diventato il naturale punto di snodo di ogni controversia. I più vecchi lo chiamavano “il democristiano” perché aveva una attenzione smisurata a non scontentare mai nessuno, o almeno a dare ad ognuno un piccolo motivo di scontento. Mai una posizione presa, mai nulla che non fosse felpato, reversibile, mai una decisione che non contenesse un piccolo invisibile bottone che, se premuto, l’avrebbe cambiata.
Sembrava un coniglio bianco in mezzo al testosterone tutto battaglie e parole taglienti dei suoi colleghi, ma era una eccezione necessaria al buon funzionamento dell’organizzazione; era colui che non avrebbe mai messo in ombra gli altri e che quindi non era necessario sconfiggere. Lui, in cambio, aveva ottenuto una primazia secondaria, governava una immensità di persone ma restando un gradino sotto i veri guerrieri. Non sapevo se gli bastasse davvero, se la sua ambizione fosse soddisfatta, ma era così da tanto tempo e tutti lo davamo per scontato.
Lo richiamai. “Aldo ho bisogno di parlarti”, la sua voce era più concitata del solito, “di persona, subito se puoi”. Volle camminare, sembrava evitare i luoghi dove avremmo potuto incontrare colleghi. Era una modalità inconsueta e poteva significare brutte notizie: che avesse in qualche modo compreso che oltre al fatto di non essere uno di loro – alle spalle avevo un’altra storia e in fin dei conti ero figlio di un’acquisizione – nemmeno provavo nei loro confronti l’ammirazione che avevo sempre simulato. E questo poteva significare la fine della tolleranza e l’inizio di una penosa defenestrazione.
Ma non si trattava di quello. Voleva parlarmi perché aveva ricevuto un biglietto che lo aveva terrorizzato; non la prese alla lontana. “Sulla mia scrivania, questa mattina, scritto a mano”.
Me lo lesse: “Pensaci, il tuo amore è così fragile”.
Si interruppe per osservare il mio stupore. Tacqui. “Ti chiedi perché te ne parli. È semplice. So chi l’ha scritto, ed è una persona che lavora per te”. Tradiva agitazione, il tono si faceva via via più concitato e la cadenza valligiana delle sue origini riemergeva. Non l’avevo mai visto così agitato.
“Spiegami tutto dall’inizio”, gli chiesi.
“All’inizio pensavo di avere fatto una cazzata, ora so che ho fatto la cosa migliore della mia vita, ma è proprio per questo che ho bisogno del tuo aiuto. Francesca Urbinari, tu sai chi è”. Lo sapevo.
Continuò. “È cominciato una sera qualche mese fa, l’ho trovata nel garage dell’ufficio con la macchina che non partiva. Era tardissimo, le ho dato un passaggio e lei era così naturale con me. Di solito i colleghi giovani mi trattano con circospezione e mi tengono a distanza, lei sembrava non avere né timore né reticenze. E profumava di fresco dopo 15 ore in ufficio. Dopo una settimana, non ci credo ancora, eravamo in un bar a raccontarci e poi tutta la notte per strada. Amore, quello vero, per la prima volta dopo vent’anni. Sotterfugi a casa da parte mia, lei ha un marito ma faceva come non esistesse.”
Continuò. “Ma esisteva, e quel biglietto l’ha scritto lui, ne sono certo. È una minaccia e tu devi aiutarmi”.
Non riuscivo ad interromperlo ma nonostante il suo flusso di parole fosse confuso capivo fin troppo bene. Avevo ricevuto un biglietto identico, anch’io, quella mattina. “Pensaci. Il tuo amore è così fragile”. Non avevo idea di cosa significasse, fino a un minuto prima
Giorgio Mastri, il marito della Urbinari, doveva avere capito in qualche modo che sua moglie lo stava tradendo; io e Mentano eravamo i suoi sospetti.
Io, in questo caso, non c’entravo nulla, la Urbinari mi era sempre sembrata solo una ragazza troppo semplice per essere interessante, ma ero il suo capo e in azienda era normale si diffondessero dicerie soprattutto se una ragazza giovane e bella veniva promossa frequentemente e Francesca era bellissima e semplice, ma anche molto brava.
Mastri si era guadagnato credibilità in azienda con una serie di decisioni così spericolate che non lasciavano dubbi sulla sua determinazione. Di fronte a un tradimento sarebbe stato capace di trascinare sé stesso, moglie e amante in una pozza di pettegolezzi e maldicenze che avrebbe significato la fine professionale di tutti e tre. L’azienda non amava vedere l’esposizione dei panni sporchi, sarebbero stati gentilmente ma impietosamente mandati via, aiutati a farsi una nuova posizione ma il più lontano possibile. Non volevo correre il rischio di essere tirato in quel fango, oltretutto senza avere nessuna colpa.
“Devi aiutarmi e mandarlo lontano, subito” continuò Mentano. “Se lo metti sul progetto Caster a Singapore con il miraggio di diventare socio non potrà rifiutare, io avrò il tempo di sistemare le mie cose e di evitare uno scandalo famigliare. Una volta divorziato con civiltà le minacce di Mastri diventeranno innocue.”
Non provai nemmeno a rifiutare o a prendere tempo, Mentano era abituato a non ricevere obiezioni e non si stupì.
Chiamai Mastri, bastarono pochi secondi in cui parlai solo io. Non gli dissi della lettera che aveva trovato Mentano. Gli parlai di quella che era stata recapitata a me, identica, quella mattina. “Giorgio, stai sbagliando bersaglio. Io non ho fatto nulla con tua moglie e non è a me che devi guardare. Pensavo tu sapessi di Mentano ma te lo dico io, non è più solo una storia, lui ha perso la testa e sta per farla perdere anche a te: Caster, Singapore. Il cimitero dei manager e dei mariti”.
Riattaccò.
La sera dopo, poco prima delle otto, una macchina investì Mentano davanti a casa mentre attraversava sulle strisce pedonali. Quando l’ambulanza arrivò fu chiaro che non restava nulla da tentare. Un testimone parlò di un SUV nero. Alle cinque della mattina seguente un’ombra nera sul pelo dell’acqua attirò l’attenzione di un pescatore seduto sul moletto che si affaccia sul lago d’Orta. Dall’’acqua emergeva poco più di un fanale, dentro c’era tutta l’auto, appoggiata sul fondo del lago. I sommozzatori dei vigili del fuoco estrassero Mastri poco dopo le sei. Come nelle grandi tragedie, tutto si era concluso in fretta.
Al suo primo tentativo di imporsi, di prendere una decisione contro qualcuno, Mentano aveva fallito. Ma solo io lo sapevo, e sarebbe sempre stato ricordato come un maestro del compromesso.
Mastri aveva usato la sua determinazione nel modo peggiore. Si era vendicato ma non aveva nemmeno provato a salvarsi. Si era spezzato davanti al pensiero di tornare a casa e guardare Francesca, di continuare a vivere come se non fosse successo nulla.
Il suo amore si era rivelato il più fragile.
L’azienda era stata investita dalla morte di Mentano e Mastri come da un contagio radioattivo. In superficie tutto era come prima, ognuno era rimasto al suo posto. I danni erano invisibili.
L’indagine interna non ufficiale e quella della polizia concordavano su un omicidio-suicidio scatenato da gelosie aziendali e dal fatto che Mastri stesse attraversando un esaurimento nervoso. La Urbinari confermò che il marito le era sembrato strano ultimamente, e più di una fonte aziendale avvallò l’immagine di Mastri come di un uomo ossessionato dal fare carriera. E Mentano era un obbiettivo ragionevole.
Né io né la Urbinari parlammo della sua relazione con Mentano, senza metterci d’accordo. Anzi io evitai di proposito di incontrarla da solo, a parte le condoglianze di rito al funerale del marito. Quando Francesca tornò in ufficio, un mese dopo, sembrava normale, come se non fosse successo nulla.
Mentano venne santificato, l’azienda aiutò la vedova a organizzare un funerale sfarzoso, quasi di stato. Venne il sindaco, c’era gente fuori dalla chiesa. Tutti noi allineati.
Mastri invece ebbe un funerale dimesso, quasi clandestino, ma il suo nome divenne in qualche modo molto popolare, i giornali ne fecero il modello dei guai che una ambizione smodata può generare. Un giornalista opportunista pubblicò anche un instant book, pieno di invenzioni e di stronzate.
Sotto le apparenze ufficiali, l’altra vittima fu Bossani. Anche se non abbastanza da fargli perdere il posto, lo scandalo fu grande a sufficienza da affossare ogni sua speranza di diventare il capo europeo; nominarono un francese, se possibile ancora più pieno di sé di Ottavio. La peggiore alternativa possibile, e soprattutto una enorme delusione per i Bossani-boys, che non solo avevano perso Mentano, ma avevano anche perso le speranze di seguire l’ascesa del loro capo. Il quartier general europeo si riempì di francesi, si preparavano tempi difficili.
Anche io ebbi il mio contraccolpo, ma non era stato aziendale. Avere visto così da vicino quei due, letteralmente, uccidersi per una donna, mi aveva sbattuto in faccia la mia mancanza di coraggio con Orietta.
15 – Parla, fai qualcosa
(a Mina)
“Arriva Jean-Claude, occupatene tu”. Bossani era entrato in uno stato depressivo, ma le sue maniere non erano migliorate.
La prima visita in Italia di Jean-Claude Bourdeais, il nuovo capo europeo, arrivava in un momento complicato. I discepoli di Ottavio non riuscivano ad accettare quello che gli era accaduto e avevano perso ogni ritegno nell’usare l’azienda per sé stessi. Ognuno si sentiva padrone di un feudo e portava avanti i suoi affari come se gli fosse stata data la possibilità di scrivere leggi e battere moneta.
La scomparsa di Mentano, del suo argomentare mellifluo e capace di mettere tutti d’accordo, aveva avuto un impatto enorme e Bossani si era chiuso in sé stesso, sembrava non sapere più comandare.
Avermi delegato l’organizzazione della visita di Bourdeais era un pessimo segnale, per molte ragioni. In tempi normali l’avrebbe gestita Ottavio dall’inizio alla fine, in modo da far capire di avere il controllo totale e impressionare il capo con la qualità delle sue relazioni. In tempi normali io sarei stato l’ultimo ad essere coinvolto, i fuori cerchia come me erano relegati a ruoli marginali e mai, mai coinvolti nell’organizzazione.
Ma la stagione era cambiata, Bossani non si fidava più dei suoi e non aveva le energie per cambiare, ed io a quel punto rappresentavo la scelta più ovvia, non ero nuovo e non ero uno dei suoi.
Avevo chiesto a Orietta di venire nel mio ufficio. Era sorpresa perché da mesi ci vedevamo solo da lontano, ci sorprendevamo a guardarci nelle riunioni, facevamo i nostri commenti privati a margine delle videoconferenze di gruppo, ci lanciavamo battute ma evitavamo di essere soli. Era come se, dopo quel bacio più di un anno prima ci fossimo ritratti: io per poca forza d’animo, lei, mi dicevo, per mancanza di vero interesse. Quello che sapevo quasi per sicuro era che lei non avesse nessuno. Della mia solitudine invece ero proprio certo. Amici e colleghi gareggiavano per trovarmi una compagna, separate, vedove, semplicemente problematiche, belle e meno belle ma ogni volta dopo qualche uscita e magari una vacanza o un poco di sesso io lasciavo perdere.
Non reggevano il paragone con l’idea che mi ero fatto di lei, e per quanto mi sforzassi di volere chi mi voleva le lasciavo e tornavo ogni volta a volere quella che ero convinto di amare. Ma restava una volontà inespressa, e non trovavo mai il coraggio di andare a vedere cosa c’era davvero, in quell’angolo.
Le domandai di darmi una mano ad organizzare la visita con il suo piccolo esercito di marketing e comunicazione, e ottenni una puntuale reazione acida. “Vuoi davvero continuare a fare carriera? Ho sempre creduto che non ci fossi portato.”
“Non voglio fare nulla, Bossani mi ha solo chiesto di organizzare la visita.”
“Aldo, non voler non vedere. Se organizzi questa visita bene, per come sta Bossani, magari in due mesi sei il nuovo capo. Ma non riesco a capire se ti interessi o no.”
Aveva ragione, e aveva ragione anche sul fatto che io mi rifiutassi di vederlo, ma non era questo il punto importante Mi aveva dato la battuta che cercavo da mesi. Feci un respiro lungo, come si fa prima di buttarsi per un tuffo dall’alto.
“Orietta, sei tu che vuoi non vedere. Se vuoi parlare di quello che mi interessa, lascia perdere Bossani o l’azienda o Bourdeais. Parla di te. Parla di cosa devo fare perché tu mi consideri. Al di fuori di qui.”
Rimase in silenzio, ma non sembrava sorpresa né delusa, così continuai.
“Sai benissimo cosa voglio, lo sai da quella sera sulla spiaggia. Sono anni che giochi con me. Sai benissimo che ti voglio, che voglio vivere con te. Non riesco più ad aspettare, mi dici, ora, cosa ti ferma, cosa mi manca perché tu ti innamori?”
Non mi guardava, il suo sguardo mi sfiorava ma puntava un poco più in alto, verso la foto di un equilibrista che era appesa in ufficio, dietro di me. Io non riuscivo a fermarmi. Anche se mi mancava il fiato e mi mangiavo le parole.
“Me lo devi, cazzo, non puoi flirtare con me tutta la vita. Dimmelo, dimmi anche solo che se fossi l’ultimo uomo sulla terra staresti con me. Almeno avrei un piano.”
“Sarebbe divertente”, adesso mi guardava negli occhi, “Ma se ti dicessi di no, che nemmeno in quel caso?”
Persi un battito. Respirai di nuovo, così la mia voce uscì meno sincopata, più rassegnata. “Almeno lo saprei, e sarebbe meglio, o forse no, sarebbe peggio ma almeno lo saprei. Avrei una chance di sentirmi libero.”
Mosse una mano come a scacciare un pensiero. “Libero da me?”
“Dall’idea di te.”
Abbassò gli occhi, sembrava riflettere sul concetto. Ora sorrideva. “Io e te insieme, non qui dentro, non io e te insieme qui dentro in questa azienda in queste stanze, non in questa ripetizione quotidiana. Sbatti qualche porta, sorprendimi e verrò con te.”
Recuperai quel battito, con gli interessi. Sapevo cosa volevo fare, cosa dovevo fare, ma il mio corpo era ancora incerto, non voleva osare. Dopo qualche secondo di paralisi mi alzai e girai intorno al tavolo, arrivai dietro la sua sedia, dietro a lei. La baciai sui capelli anche se dal corridoio ci avrebbero potuto vedere. Aveva il profumo dell’inchiostro, e restai immobile a sentire la corrente che ci attraversava.
“Cominciamo a lavorare su questa visita, allora.”
Lei era già attaccata al telefono, stava incominciando ad organizzare.
Preparare la visita del nuovo capo europeo non era stato complicato, anche se Bourdeais sembrava impersonare lo stereotipo del francese tignoso, arrogante, avaro di parole, e il suo staff amplificava ogni difficoltà.
La squadra italiana, Bossani in testa, si era coalizzata in un rancore muto contro la visita e tutto quello che rappresentava. Oppressione, fine delle speranze, per molti fine dell’ascesa. Quanto bastava per diventare passivi-aggressivi, ignorare ogni richiesta di fare incontrare a Bourdeais clienti o persone importanti, fare scena muta nelle riunioni in cui io chiedevo idee sul come riempire l’agenda della visita.
Avevano lasciato tutto nelle mani mie e di Orietta, un poco per depressione e un poco contando sul fatto che anche io, lasciato da solo, sarei finito male. Non sapevano quanto poco mi interessasse finire bene, e non avevano fatto i conti con il calendario.
Bourdeais, infatti, ansioso di marcare il suo territorio, aveva deciso di venire in Italia appena prima di Natale. Io avevo provato, per facciata, a spiegare al suo staff che non era il periodo migliore, ma non avevano voluto sentire ragioni.
La scusa del calendario, con tutti i clienti occupati nelle loro attività di fine anno e di festeggiamenti, ci aveva giustificato nel proporre una agenda tutta interna, fatta di brevi incontri faccia a faccia tra il capo europeo e tutti i nostri capi e capetti, Bossani per primo, seguita da un pranzo di Natale con i leadership team al completo e finalmente conclusa con un discorso di Bourdeais a tutti i dipendenti, molti riuniti di persona e gli altri collegati in conferenza dalle altre sedi.
In tempi normali sarebbe stata un’agenda inaccettabile, senza un incontro esterno, senza un cliente, ma la prima e principale e inderogabile priorità di Bourdeais era di fare capire a tutti che i tempi erano cambiati e che c’era un nuovo segno del comando. L’approvazione finale era arrivata velocemente, quasi inaspettata, lasciandoci tempo per approntare tutti i dettagli.
16 – Pranzo di Natale
Bossani era depresso, ma non abbastanza da lasciare che fossi io ad andare a prendere Jean-Claude all’aeroporto la sera del suo arrivo.
Lo aveva anche invitato a cena, ma la segreteria del francese aveva declinato con la scusa di una riunione internazionale online. Invece, un quarto d’ora dopo che si sono salutati davanti all’albergo di lusso vicino all’ufficio, io e Jean-Claude ci incontriamo in una saletta privata del ristorante dell’albergo.
E’ stato lui a organizzare la cena, mandandomi dei messaggi privati e senza usare la mail aziendale. Io non ne avevo parlato quasi con nessuno, non sapevo cosa avrebbe potuto volere.
L’ipotesi di minima: dal momento che avevo organizzato io la visita, voleva conoscermi, anche se questo non spiegava la clandestinità della cena. Quella catastrofica: voleva cacciarmi dicendomelo di persona, anche se non sembrava essercene alcun motivo, a volte succede. L’ultima ipotesi possibile non riuscivo nemmeno a nominarla, anche se ci pensavo incessantemente da quando avevo ricevuto l’invito.
Bourdeais parlava un buffo inglese, sembrava Peter Sellers quando simula un accento francese interpretando l’Ispettore Clouseau. Era un vantaggio, io lo capivo bene.
“Ma la Porsche di Bossani è davvero la sua macchina aziendale?” esordisce, saltando ogni convenevole.
“Si, è una eccezione alla policy”, gli rispondo con perfidia, “normalmente le auto sportive non sono permesse.”
“L’azienda non è sua, le eccezioni le devo approvare io, e non mi piace neppure come la guida. Spiegami come è la situazione qui.”
Gliela espongo con pazienza, senza forzature, non ce n’è bisogno. Sono preparatissimo, mi sono preparato per giorni. Con Simone, per approfondire qualche tema particolarmente delicato.
Parlo dell’impasse in cui siamo, della perdita di energia del gruppo. Gli parlo dei risultati dell’ultimo sondaggio sul morale interno, glieli disseziono per ogni reparto, gli faccio vedere quello che i report europei non mostrano. Guardiamo insieme l’agenda del giorno dopo. Ogni incontro, ogni mezz’ora, ogni dettaglio su Bossani e su ciascuno dei suoi boys. Ogni scheletro in ogni armadio.
Il francese è un tipo preciso, per lui il tempo non sembra esistere. Se l’albergo non fosse stato di lusso ci avrebbero già sbattuti fuori a calci dalla sala, invece ci dedicano un cameriere che fa gli straordinari e passa la prima metà della notte a portarci da bere, Il francese beve parecchio whisky, io fatico a reggere il suo passo. Svuoto tutti i cassetti.
Finalmente Jean-Claude mi racconta il suo piano per il giorno dopo. Mentre lui parla io come in un acceleratore rivivo tutto quello che ho provato negli ultimi anni. Sono prima un oggetto, che serve solo a uno scopo preciso. Poi mi sento forte, un passo avanti a tutti, la hybris prende il sopravvento ma dura pochissimo, lascia il posto alla consapevolezza di essere nel posto sbagliato senza sapere come uscirne.
Lui è agli ultimi dettagli, e a me viene una illuminazione. Forse questa volta lo so.
Esco dall’albergo alle tre di notte, vado a casa ma non dormo, passo il resto della notte a pensare, a contare, a scrivere. Ho ancora il tempo per una doccia e per mettermi una uniforme fresca, perché finita la grande pandemia il conformismo nel vestirsi era tornato identico a prima, esattamente come tutti gli altri comportamenti aziendali. Fare tardi in ufficio. Riunioni inutilmente lunghe. Giacca grigia, camicia azzurra, cravatta con le farfalline gialle.
Alle otto sono nel mio ufficio che è il centro operativo della giornata, con Simone e Orietta. Orietta mi guarda inquieta ma non abbiamo tempo per parlare, dobbiamo controllare l’agenda, stamparla per Bourdeais, verificare che tutti sappiano esattamente a che ora devono trovarsi e dove.
Bourdeais arriva puntuale qualche minuto prima delle nove e lo vado a prendere alla reception. Il whisky non sembra avere lasciato segni, mi saluta come mi vedesse per la prima volta e rifiuta di sistemarsi nella board room. “E’ troppo sfarzosa, come tutto qui” e con la mano indica il tavolo intarsiato, ma intende anche l’atrio con il suo lampadario di cristallo, il marmo per terra, le grandi vetrate che guardano la stazione. Farà tutte le riunioni in una piccola sala che usiamo in genere per fare aspettare gli ospiti.
Il primo colloquio nell’agenda di Jean-Claude è con Bossani, che arriva azzimato e puntualissimo. Per me non c’è molto da fare quella mattina, solo bussare con discrezione quando il tempo previsto per ogni incontro sta per terminare, per evitare di accumulare ritardi. La riunione con Bossani dura un’ora, e io uso quel tempo per aggiornare Simone sulla notte precedente e per chiedergli un parere.
Quando vado ad avvisare che l’ora del prossimo colloquio si sta avvicinando, trovo Ottavio già in piedi sulla porta, lo sguardo basso. Mi fa cenno di seguirlo nel suo ufficio, mentre Orietta fa entrare nella saletta il primo della lista del leadership team, Marchetti, il capo delle risorse umane, il capo di Simone.
“Che cristo sta succedendo? Quello stronzo mi ha attaccato per un’ora, mi ha massacrato, quando provavo a spiegarmi sapeva sempre qualcosa più di me, sapeva cose che non avrebbe dovuto sapere”. Si toglie la giacca, per la prima volta da quando lo conosco gli vedo una chiazza di sudore. “Non capisco a che gioco sta giocando, quando gli altri escono dal loro colloquio digli di passare da me”.
Non mi sta davvero chiedendo una spiegazione, vuole solo darmi un ordine. Meglio così, meno mi chiede meno devo mentire.
“Va bene Ottavio”, e torno nel mio ufficio. Simone intercetta il suo capo all’uscita del colloquio con Bourdeais. È rosso fuoco, prima ancora che io gli possa dire di passare da Bossani si è già portato Simone in ufficio.
Simone ci raggiunge dopo un quarto d’ora. “Bourdeais l’ha accusato di avere insabbiato delle denunce interne per molestie. Ha avuto la faccia tosta di chiedermi di difenderlo. Gli ho detto che o lo difende Bossani, o non ha scampo”.
“Da quello che ho capito Ottavio non è nella condizione di difendere nessuno”.
Nel frattempo, anche il capo delle vendite esce dalla saletta, agitato. Corre da Bossani senza neanche guardarci.
Per altre tre ore, e sei colloqui, Jean-Claude Bourdeais massacra, ad uno ad uno, ogni membro del leadership team. Finanza, Operazioni, Progettazione, Prevendita, Legale, Soluzioni. Cresce un’onda di rumore negli uffici, chi orecchia un urlo, chi un’imprecazione e la ripete ai suoi colleghi; i frammenti di informazione vengono collegati, diventano una valanga e si diffonde la voce che la visita del capo Europeo, che era stata derubricata da Bossani a una normale routine, stia prendendo una piega inaspettata.
Io sono l’ultimo nell’agenda di Jean-Claude, la sua ultima riunione prima del pranzo di Natale è con me.
Entro, lui ha un paio di fogli stampati sul tavolo. Me li mette davanti. Li guardo, faccio una correzione a penna. Lui la guarda, mi guarda, scuote la testa, aggiunge una riga a mano sotto la mia correzione e la firma di fianco. Poi firma in fondo, dove c’è il suo nome stampato. Firmo anch’io, anche io due volte, ed esco. È stata la riunione più breve della mia vita.
Ignoro l’ordine di Bossani di passare da lui e raggiungo Orietta nella sala dove mangeremo.
Orietta ha allestito dodici posti attorno a una grande tavola quadrata, con una tovaglia color fuoco, piatti di porcellana bianchi con il contorno rosso sottile che richiama la tovaglia, posate d’acciaio moderniste, bicchieri di cristallo veneziani. Ha deciso tutto lei, ogni dettaglio, e io guardando la tavola riesco per la prima volta a comprendere la sua magia. Questa tavola non ha nulla di particolare che dica “è Natale”, ma guardandola è impossibile non capire che è Natale. Lei è precisa, e parca, e non aggiunge nulla che non sia necessario. Ma nella sua economia di oggetti, di frasi, di emozioni, riesce sempre ad arrivare al punto, e ad arrivarci con una precisione assoluta, esplosiva. La guardo e mi chiedo se lei sappia del dono che ha.
Bossani entra insieme a Bourdeais e io smetto di sognare. Gli altri entrano subito dietro di loro, sembrano rinfrancati, Ottavio deve averli tranquillizzati. È un banchetto alla russa, dove tutto o quasi è già sul tavolo nei vassoi per evitare di avere troppi camerieri intorno. C’è un posto anche per Orietta, anche se non fa parte del leadership team Jean-Claude l’ha voluta dopo averla vista e avere saputo che aveva organizzato tutto lei.
Le flûtes sono già piene.
Bossani, che come da regola è seduto di fronte a Bourdeais, si alza.
“Sono orgoglioso di potere ospitare a Milano Jean-Claude proprio prima di Natale; la sua visita qui, la sua prima visita a un paese dopo poche settimane dalla sua nomina a Presidente Europeo, è la testimonianza dell’importanza del nostro paese nell’economia mondiale e del contributo che la filiale Italiana ha dato all’azienda negli ultimi anni”.
Ottavio invariabilmente comincia i suoi discorsi ufficiali con qualcosa di spiritoso, o che lui crede spiritoso. Ora sembra stia leggendo un comunicato stampa. Continua: “Anni in cui questo gruppo di persone, di cui vado fiero, ha contribuito con un ruolo insostituibile alla trasformazione digitale del paese…” Io smetto di ascoltarlo e guardo gli altri. Bourdeais non sorride ma ascolta, apparentemente paziente. Gli altri non fiatano, ma sembrano molto perplessi dalla prosa così poco Bossaniana.
Il discorso si avviluppa su sé stesso, diventa troppo lungo per una introduzione o per un brindisi, si ripete: “… e in questo processo virtuoso di trasformazione abbiamo contribuito a creare un nuovo modello economico e a creare valore per le aziende nostre clienti…”. Le labbra di Bourdeais si assottigliano, il suo sguardo lascia Ottavio e comincia a girare nervoso per la sala. Per fortuna Bossani finisce. “E quindi voglio iniziare questo pranzo con un brindisi di benvenuto e di Buon Natale a Jean-Claude, a nome di tutto il leadership team e di tutta la filiale Italiana”.
Con un sospiro di sollievo tutti alzano i loro bicchieri, ma Bourdeais si alza, senza dare il tempo a nessuno di bere. Le flûtes tornano sul tavolo, ancora piene.
“Mi dispiace non potermi unire a questo brindisi.” È secco, tagliente.
“Non sono d’accordo con quello che Bossani ha detto, a parte le cose ovvie e banali. Sono venuto in Italia prima che in ogni altro paese perché ero molto preoccupato e volevo capire quanto difficile fosse la situazione. Quello che ho trovato va al di là delle mie peggiori aspettative. Mi è chiaro ora che tu, Ottavio, non hai alcun controllo della situazione, e che sei, insieme ad altri di questo gruppo, la causa del problema. Nel nome del successo a breve termine e dei vostri bonus avete ignorato i processi, disprezzato le regole, ignorato gli obiettivi strategici. Avete messo a rischio il nome dell’azienda, avete tolto la motivazione a dodicimila persone. “
Lo seguo incantato, dice le parole che per centinaia di volte avevo dette a me stesso, senza mai avventurarle fuori.
Bossani è silenzioso ma dal gruppo parte una salva di reazioni non particolarmente articolate.
“Ma…”
“Non è…”
“Questo va contro.…”
“Come si perm…”
“E checcazz…”
L’ultimo è il capo del personale, che sembra avere perso il controllo, paonazzo e con una vena che gli pulsa ben visibile sopra la tempia. Ma Bourdeais alza il tono per soverchiare le voci degli altri e continua.
“Non è più il momento di discutere, questa mattina avete avuto ognuno mezz’ora per convincermi del contrario e avete tutti solo negato quello che a me è evidente. Le decisioni sono prese. Solo per cortesia le comunico prima a voi, tra un’ora le racconterò di persona a tutti i dipendenti.
Ottavio, da questo momento sei fuori dall’azienda. E anche Marchetti. Immediatamente. Ho chiesto alla sicurezza di farvi scortare fuori. Credo che vi sia chiaro il perché e credo che sappiate che meno parlerete di questa situazione, più possibilità avrete di trovare un altro lavoro.
Il ruolo di responsabile della filiale italiana e di capo di questo team viene assunto, con decorrenza immediata, da Aldo Pastore. Simone Pascoli è il nuovo capo delle risorse umane. Le deleghe formali di Ottavio sono state appena assegnate ad Aldo.”
Orietta, che era rimasta impassibile fino a quel punto, mi scarnifica con lo sguardo ma io me ne accorgo appena, incantato come sono a vedere i volti degli altri sgretolarsi. Bourdeais continua.
“Mi spiace per il pranzo di Natale. Ce ne saranno altri. Ora voglio che tutti, tranne Ottavio e Marchetti ovviamente, vengano in auditorium per l’incontro con i dipendenti”. Si alza e se ne va, facendomi cenno di seguirlo. Il banchetto di Natale resta intatto
Fuori dalla porta ci sono davvero due della sicurezza interna che aspettano Bossani, non credo ai miei occhi.
Gli vado dietro, si installa nel mio ufficio per mostrarmi la mail di annuncio che aveva già preparato e, incredibilmente, per chiedermi consiglio su come parlare ai dipendenti.
“Sii diretto e mostra comprensione”, cerco di articolare, “digli che c’è un domani”. Mi interrompe subito.
“No, devono capire che il taglio è netto, che non c’è pietà né comprensione per chi sbaglia”.
“Ok, ma allora non chiedermi di parlare oggi, li confonderebbe, le persone devono metabolizzare che io sia il nuovo, non tutti mi conoscono, non molti sanno che io sono diverso”.
Ci pensa, a lungo. Poi annuisce, e io tiro il più lungo sospiro di sollievo della mia vita.
Dieci minuti dopo, nel lussuoso auditorium da cinquecento persone che era uno dei fiori all’occhiello di Bossani, non c’è più posto nemmeno per una mosca. I superstiti del leadership team sono nelle prime due file, obbedienti e codardi. Io sono al lato della sala ma in prima fila, con Simone di fianco, incredulo per il frettoloso racconto che gli ho appena finito di fare. Orietta guarda dove mi siedo e va in direzione opposta.
Jean-Claude parla, parla a lungo, in un gelo totale, parla dei massimi sistemi e dei valori, parla degli sbagli e delle punizioni, racconta storie di errori che lui stesso ha commesso e di come si è redento, mi ricorda Giobbe. Quarantacinque minuti dopo arriva al dunque, che ormai, grazie al tam-tam aziendale, quasi tutti in qualche modo sapevano, perlomeno nei suoi effetti più visibili. Lo ascolto fare il mio nome, sento la pressione degli sguardi di tutti, sorrido, tirato.
“Ci sono domande?”, chiede alla fine. Non si sente un respiro.
Dopo qualche secondo, uno dei manager più giovani, uno che secondo me avrebbe potuto fare molta strada, alza la mano. Incerto e rosso in faccia chiede “Ma tutto questo succede da… subito?”
Il Presidente Europeo risponde con il suo accento da Clouseau, che ora si è fatto fortissimo e sembra proprio che stia parlando con Cato: “Si, vi ringrazio tutti e vi auguro un felice Natale”, ed esce dalla sala.
Io lo seguo, di corsa, prima che qualcuno riesca a congratularsi con me. Bourdeais deve prendere l’aereo, secondo l’agenda ha solo cinque minuti. Li usa per sedersi alla mia scrivania e spedire la mail che rende tutto questo ufficiale. Poi mi stringe la mano, mi dice che vuole vedermi a Parigi il ventisette dicembre, perché non è tempo di vacanze e dobbiamo parlare, e se ne va.
Mi siedo al posto, al mio posto per un ultimo istante, e mando anche io una mail. La porta sbatte, rumorosamente.
Esco dall’ufficio il più velocemente possibile, non lo svuoto, ci penserà qualcun altro. Il mio telefono comincia a suonare quando sono ancora in ascensore. Mando un messaggio a Orietta e lo spengo.
Lei arriva dopo poco, in un bar dove andavamo a pranzo ogni tanto quando volevamo vederci senza colleghi intorno. Mi chiede quando avevo deciso e perché ho lasciato che lei mi odiasse per un’intera mezz’ora. Le racconto del momento di serendipity che avevo avuto la notte prima, dell’istante in cui avevo visto la possibilità di fare cadere tutti i pezzi al loro posto. Come fotterli con fragore, come fare cambiare qualcosa davvero nella mia vita, le dico, nella nostra vita. Come sorprenderla.
Lei sorride, ma il suo telefono sta impazzendo, la notizia si è sparsa e lei deve gestire, non ha idea di come, la comunicazione.
Ti raggiungo a casa, mi dice. Casa tua. Casa nostra, ci vado subito.
17 – Out Of Office
Simone: Cristo Aldo dove sei? Qui è un merdaio, nessuno capisce quello che è successo, perché ti sei dimesso, perché un minuto dopo essere stato nominato amministratore delegato
Aldo: Sono a casa, non potevo sopportare l’idea di guardare in faccia qualcuno. Né quelli a cui avrei sputato in un occhio né tantomeno quelli per cui mi dispiace.
Simone: Nessuno sa cosa pensare esattamente. È entrato il capo delle vendite dicendomi che secondo lui è stata l’ultima mossa di Bossani, in qualche modo costringerti a dimetterti
Aldo: È sempre stato un coglione, non mi stupisco. E se pensano così comunque è ancora meglio, tu incoraggia questa idea, se ne esco come una vittima della guerra per bande è meglio ancora, più sono confusi e meglio è
Simone: Comunque ho visto che hai trovato il tempo di mettere l’out-of-office
Aldo: Io faccio le cose per bene. Out of office per sempre.
Simone: Idiota
Aldo: Sei sicuro che chiamarmi sia una buona idea? Lo dico per te, che lì ci devi lavorare ancora
Simone: Ufficialmente ti sto chiamando per chiederti di ripensarci. Possibilmente prima che Bourdeais atterri e capisca il casino in cui si è messo
Aldo: Ufficialmente ti dico che non ci penso nemmeno. Lo sai, quello che cercavo non era di fottere Bossani e i suoi, cercavo un modo per uscirne. E un’occasione del genere non si ripeterà più.
Simone: Tu sei matto
Aldo: Per niente, anzi dovresti cominciare a preparare la buonuscita
Simone: (ride e impreca) Ma come cazzo hai fatto a convincerlo a cambiare la clausola del paracadute? Si è impiccato con le sue stesse mani
Aldo: La notte prima gli ho dimostrato di non essere un tipo avido quando non ho nemmeno provato a negoziare la cifra del paracadute nel caso di licenziamento, figurati cinque milioni per me sono molto più che sufficienti
Simone: Certo lui è abituato a gente che ne chiede quindici, magari per averne sette o otto. Ha pensato che tu fossi un ingenuo o un coglione o che ti interessasse solo il potere e non i soldi
Aldo: Ed era anche sollevato perché se avessi chiesto di più avrebbe dovuto andare dal CEO per farsi dare l’autorizzazione e a quel punto non ce n’era il tempo, o addio blitzkrieg.
Simone: Ma impegnarsi a pagarti il paracadute anche se decidevi di andare via tu, come gli è venuto in mente?
Aldo: Questa mattina, quando dovevamo solo firmare e gli ho aggiunto a penna sul contratto la frase “qualsiasi sia la causa” prima di “del licenziamento”, ha capito il rischio che correva ma poi ha immaginato che io non avrei mai pensato di volere rinunciare al potere
Simone: E te l’ha firmata così, senza obiettare?
Aldo: Ha solo aggiunto “Tranne che per casi di colpa grave”, aveva paura che rubassi ma non che decidessi di andarmene. E non aveva il tempo per riflettere bene, a quel punto era già in mezzo al ponte, tornare indietro sarebbe stato difficilissimo per lui. Ha rischiato
Simone: Ha fatto una cazzata enorme, gli hai fatto fare una figura di merda colossale e deve pure pagarti
Aldo: Ispettore Clouseau di merda!
Simone: Qui ora c’è la rivoluzione, in una settimana tutti quelli bravi avranno in mano offerte da altre aziende
Aldo: Meglio così, anzi è quello che spero, ma alla fine tutto tornerà come prima. Però vedere Bossani spedito fuori in quel modo è valso il viaggio, peccato che tu non fossi nella stanza
Simone: Cosa farai?
Aldo: Io vado al mare, anzi sopra il mare, per un po’ almeno. Scrivimi quando vuoi
Simone: Sarò occupatissimo. Con quello che è successo oggi nessun interno può prendere il tuo posto. Ci commissarieranno per un po’ ma intanto io dovrò mandare via tutti gli altri amici di Ottavio, dopo l’apocalisse di oggi è chiaro che nessuno può restare
Aldo: Sai cosa penso su chi dovrebbe venire a fare il capo, ne abbiamo parlato. Ci vorrà un poco di tempo ma vedrai che funzionerà
Simone: Mi mancherai
Aldo: Ti abituerai
Sono in piedi e guardo le onde che si frangono sulle rocce proprio sotto il muro della terrazza di casa. L’abbiamo comprata così com’era, senza toccarla, solo per vivere lì per un poco, poi decideremo. La Palombaia è abbastanza vicina e abbastanza lontana da tutto per lasciarci la libertà di scegliere.
Orietta arriva dietro di me, i capelli pieni di sale raccolti in un elastico rosso, con il giornale finanziario in mano. Mi abbraccia in modo che il giornale, piegato in quattro, sia davanti ai miei occhi, devo leggere anche se non ne avrei voglia, vorrei solo girarmi e baciarla.
C’è scritto che hanno nominato Anna de Mergis nuovo capo della filiale italiana, dopo gli “sconvolgenti rivolgimenti” di tre mesi prima. La De Mergis, scrive il giornale, arriva da una azienda concorrente dove si è fatta la fama di una insaziabile aggressività commerciale.
La conosco, dico a Orietta, è brava e conosce i limiti, hanno scelto bene. Speravo che la scegliessero, ne avevo parlato con Simone, sai, continuiamo a sentirci. Anche se tutto è diventato così poco importante, ora.
L’articolo conclude ricordando che l’azienda non ha ancora nominato il nuovo Presidente Europeo dopo che il precedente è stato colpito da un ictus al suo ritorno da un viaggio in Italia, letteralmente appena sceso dalla scaletta dell’aereo, mentre leggeva la mail. Il malore l’ha risparmiato ma i dottori gli hanno consigliato di interrompere l’attività.
Ora il rumore delle onde è fortissimo, mi giro, le slego i capelli e ci affondo dentro la faccia. Restiamo così per un minuto, mentre lei con la sua voce che nei mesi passati su questa terrazza si è fatta roca, mi chiede se ho dei rimpianti.
Faccio finta di pensarci, perché so già benissimo che non ne ho. Spesso però mi chiedo se dovrei avere dei rimorsi. E ogni volta mi dico di no, e ogni volta mi stupisco e mi faccio paura, perché dovrei averne. Ma non ne ho. Nessuno.
Le rispondo di no, tenendola tra le braccia, le rispondo che non ne ho.
Torniamo in casa, le soffio tra i capelli. Io ho solo gioia. E non ho detto noia.
FINE
Ciao Maurom ,
salvato per leggerlo quando sono OUT OF OFFICE